Consorzi industriali: i punti essenziali per una buona riforma

Signor Presidente del Consiglio, Signor Assessore, Onorevoli colleghi,

La riforma della disciplina delle funzioni in materia di aree industriali, di cui aggi discutiamo, si è caricata di un peso politico assai rilevante, forse persino eccessivo rispetto alla sua effettiva portata. Evidentemente a ciò ha contribuito il fatto che si tratti di un intervento per un verso essenziale e urgente, e per l’altro quasi simbolico – tale è, effettivamente, il significato che ha assunto – rispetto alla reale volontà riformatrice di questo Consiglio regionale.

Credo che la cosa migliore sia, piuttosto che rimanere sul generico terreno dei buoni propositi riformisti o delle vuote accuse di conservatorismo, attenersi al merito. Ovvero, perché questa riforma è necessaria, che tipo di riforma è opportuna.

La condizione di partenza che mi pare condivisa è l’urgenza di intervenire. Anzitutto per le condizioni di difficoltà dell’economia e dell’industria sarda – come di quelle nazionali ed internazionali; le note di agenzia sul Bollettino di Bankitalia, che ho potuto scorrere rapidamente poco fa, somigliano più a un bollettino di guerra nel descrivere la congiuntura economica, con riferimento alla competitività, al potere d’acquisto, al PIL, alla produzione industriale, alla fiducia delle imprese, agli ordinativi, etc. In secondo luogo per la palese inadeguatezza dei Consorzi industriali ad assolvere alle funzioni cui sono chiamati, oltre che per le non sempre esemplari e trasparenti modalità con cui sono stati –
e sono tuttora – gestiti.

In effetti sono dunque ragioni oggettive, che mi pare possiamo tutti riconoscere senza doverci anche su queste dividere o contrapporre, a individuare la necessità dell’intervento riformatore. Vorrei citare le principali, che sono peraltro state richiamate in diversi degli interventi svolti nel corso di questa discussione generale.
La prima. I Consorzi industriali sono stati istituiti dal Testo Unico sugli interventi per il Mezzogiorno, come enti pubblici economici chiamati a svolgere le funzioni di favorire le condizioni per lo sviluppo delle attività produttive; di attrazione delle imprese; di realizzazione e gestione delle infrastrutture; di erogazione dei servizi.
Da allora, e in particolare negli anni più recenti, sono intervenute significative evoluzioni sia sul versante della comprensione delle politiche per lo sviluppo delle aree e delle attività industriali, sia su quello legislativo. Sotto il primo punto di vista, si è compreso che sono necessarie politiche di più ampio spettro, coordinate su scala perlomeno regionale, per creare un contesto favorevole all’attrazione e al mantenimento di un tessuto industriale sano e produttivo. Politiche capaci di innalzare la capacità di innovazione e il livello di qualificazione delle risorse umane, e di accrescere la produttività e la competitività del sistema industriale. A questi scopi, è necessario migliorare la qualità dell’offerta delle aree industriali e programmare e coordinare le attività di marketing, di attrazione delle imprese e di erogazione di servizi. Ed è necessario ancor più fare chiarezza in materia di competenze e di regole relative alle funzioni amministrative relative alle aree industriali. Dunque, regole semplici e competenze chiare per creare un clima favorevole alle imprese.

Con riferimento agli interventi legislativi, oltre alle modifiche costituzionali dell’ultimo decennio, si segnalano in particolare:
– la legge n. 4/2006, che ha assegnato all’agenzia Sardegna Promozione le funzioni di promozione, attrazione e localizzazione di investimenti in Sardegna, sostegno all’internazionalizzazione e alla capacità di esportazione.
– la legge n. 9/2006, che individua gli enti locali quali principali destinatari delle funzioni amministrative, affidando in particolare alle province le funzioni di programmazione e pianificazione per le aree industriali sovracomunali, ed ai comuni le funzioni amministrative per la realizzazione delle aree produttive.
– le norme che riattribuiscono competenze specifiche, quali in particolari il Decreto legislativo n. 152/2006, relativamente agli impianti di acquedotto, fognatura e depurazione (trasferiti in concessione d’uso al gestore del servizio idrico integrato) e alla gestione integrata dei rifiuti (con l’aggiudicazione del servizio affidata all’Autorità d’ambito).
– le norme comunitarie, più severe riguardo alla possibilità sia di finanziare integralmente con risorse pubbliche le infrastrutture, sia di contribuire con tali risorse alle spese generali dell’ente.
Si consideri che è stata questa, in particolare negli anni più recenti, la fonte che ha consentito ai consorzi di funzionare e di sostenere i propri conti economici. I lavori finanziati, negli ultimi 15 anni (1991-2006), sono stati d’altro canto assai ingenti (pari a oltre 430 milioni di €, con pagamenti effettuati per oltre 290 milioni).

Ma, a parte il ridimensionamento dei loro compiti, come funzionano i Consorzi? Che costi hanno, sono capaci di sostenersi sul mercato (sono, ricordiamolo, enti pubblici economici)? In questi anni sono stati diffusi ripetutamente, sia nella Commissione industria di questo Consiglio che sulla stampa, alcuni dati significativi: negli anni tra il 2000 e il 2006 il bilancio civilistico dei Consorzi sardi (16, su 67 esistenti su tutto il territorio nazionale: il 25%, mentre il PIL della Sardegna rappresenta il 2,18% rispetto a quello nazionale, mentre il valore aggiunto dell’industria in senso stretto è pari all’1,32%!) fa segnare una perdita complessiva di oltre 14 milioni di €, mentre il valore dell’attività caratteristica (ovvero il valore della produzione al netto dei costi di produzione) fa segnare una perdita di oltre 61 milioni di €.
Poi ci sono i costi più evidenti, cioè maggiormente capaci di richiamare l’attenzione della pubblica opinione: l’insieme dei direttori generali costa (dati 2005) circa 2,3 milioni di €; i consiglieri di amministrazione costano oltre 2,5 milioni; i dipendenti oltre 25 milioni; per circa 360 dipendenti sono inquadrati circa 30 dirigenti. Per non parlare delle decine di controllate o partecipate, spesso in verità “incontrollabili”, ovvero dai costi e dalla struttura societaria imprecisati e comunque difficilmente verificabili.

Vi è poi un altro tema, che, mi rendo conto, può essere considerato un pregiudizio, o quantomeno un giudizio eccessivo se non grossolano. Però non possiamo nasconderci che nella consapevolezza diffusa dei cittadini questi soggetti sono apparsi spesso anche come luoghi oscuri di gestione di un potere clientelare, che ha alimentato un ceto parapolitico al di fuori di qualsiasi controllo democratico; luoghi dipendenti, in senso lato, dalla politica, che, in virtù della loro natura giuridica, hanno potuto godere delle libertà fornite dalla disciplina privatistica in materia di affidamento di incarichi, aggiudicazione di appalti, acquisizione di beni e servizi e, soprattutto (lo dico per i tanti risvolti del tema in un tempo di grandi difficoltà di trovare una occupazione stabile e di qualità) di assunzione del personale. Aspetti che la pubblica opinione – la morale collettiva, direi – hanno considerato sostanzialmente insostenibili e insopportabili.
E tutto ciò, ricordo, senza che i Consorzi abbiano avuto la capacità di “servire” il sistema industriale sardo. Essi, al contrario, ne hanno spesso limitato le capacità di attrazione e di sviluppo.

Dunque, le necessità di un intervento riformatore stanno da un lato nelle modificazioni legislative, e dall’altro nelle valutazioni che ho appena richiamato.

Una riforma, quella che ci accingiamo ad esaminare, già avviata con la Finanziaria regionale (L.R. n. 3/2008, art. 7), che assegna ai Comuni le funzioni amministrative relative alle aree industriali di dimensione comunale, sopprimendo 8 dei 16 Consorzi esistenti.
Con la Finanziaria regionale, come sappiamo, il Consiglio ha poi rimandato, per la riforma delle aree di dimensione sovracomunale, a uno specifico intervento legislativo – quello ora all’esame di quest’Aula –, nel rispetto dei principi della Finanziaria nazionale 2008. La quale prevede, all’articolo 2, comma 33, che le Regioni provvedano ad accorpare o sopprimere gli enti, comunque denominate, titolari di funzioni assegnate agli enti locali, trasferendole a questi ultimi.
Dunque, questi interventi legislativi, che rappresentano l’avvio, la prima fase di questa riforma, costituiscono una ragione ulteriore per proseguire in questo percorso, anche attraverso un significativo e coerente aggiornamento del testo all’attenzione di quest’Aula consiliare.

Quale, dunque,la riforma opportuna? Verrebbe da dire in primo luogo che, se forse non l’abbiamo fatta presto, a maggior ragione dobbiamo farla bene.

Cosa significa farla bene?
1. Trasferire le funzioni agli enti locali (comuni sui cui territori insistono le aree e provincia, oltre, come previsto in Finanziaria, i Comuni facenti parte degli enti soppressi in quella circostanza), chiamati a costituire Consorzi pubblici ex D.lgs. 267/2000 per esercitarle in forma associata. Ciò significa sottoporre questi enti a disciplina pubblicistica, con l’applicazione delle regole proprie degli enti locali in tema di assunzioni, incarichi, compensi degli amministratori.
2. Individuare in modo preciso e definito le funzioni, stabilendo che ai nuovi Consorzi, nel rispetto delle funzioni di programmazione della Regione e della Provincia,siano assegnate le medesime funzioni trasferite ai Comuni con la Legge Finanziaria regionale.
3. Dire NO a scatole vuote quali le partecipate e le controllate, che costituirebbero esclusivamente un modo per far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta.
4. Significa non lasciare nessuno a casa, certamente. Ma anche assegnare il personale allo svolgimento delle funzioni per come esse vengono ripartite tra i diversi soggetti istituzionali (“il personale segue le funzioni”, in altri termini), e riportare entro la disciplina degli enti locali i compensi dei dirigenti e dei nuovi dipendenti.
5. Fare presto. Ovvero far partire da subito i nuovi Consorzi tra enti locali, definendo per legge modalità e tempi certi per l’avvio delle loro attività e l’assegnazione delle funzioni e dei relativi beni.
6. Costituire organi riconoscibili, democraticamente responsabili, snelli ed economici.
7. Rispettare la legge relativamente alle procedure di liquidazione. I colleghi (Claudia Lombardo per prima) che hanno richiamato il rischio di adottare un provvedimento contrastante con le competenze costituzionalmente riconosciute alla Regione e lesivo dei diritti dei consorziati privati, hanno certamente posto un tema di fondamentale importanza. Sul punto occorre la massima chiarezza. Quel che possiamo affermare in questa sede è che: a) la Regione ha competenza legislativa ad intervenire, in base alle norme costituzionali, statutarie e al D. Lgs. 112/98, come ha affermato la Corte costituzionale qualche anno fa (sent. 429/2002); b) i Consorzi industriali, in quanto enti pubblici economici, sono dotati di autonomia funzionale: di essi cioè fanno parte, come soci, soggetti privati, portatori di interessi economici e imprenditoriali che vengono curati attraverso i consorzi medesimi. Dunque il rispetto delle regole giuridiche attinenti alla disciplina dei rapporti tra tali privati costituisce il limite insuperabile per il legislatore regionale, che non può invadere, intervenendo in materia, la competenza esclusiva del legislatore statale in tema di rapporti privatistici. E, con riferimento ai Consorzi, la tutela dei privati risiede nel patto che essi hanno sottoscritto, lo Statuto consortile, le cui norme non possono essere derogate da un atto unilaterale regionale. Dunque, pur con tutte le chiarificazioni funzionali a garantire un immediato avvio delle attività dei nuovi consorzi, è necessario individuare – come afferma anche il parere ampio e articolato della Prima commissione – una fase liquidatoria, nelle modalità stabilite dagli Statuti medesimi. Ciò proprio a garanzia dei privati, oltre che dell’interesse pubblico. Sul punto credo sia necessario che il Consiglio sia messo nelle condizioni di legiferare avendo piena contezza dei vincoli di natura costituzionale che, con riferimento alla procedura di liquidazione, ne limitano gli spazi di intervento.

In conclusione, sono convinto che se questi saranno i punti fondamentali della legge, potremmo dire che il tempo non breve che il Consiglio ha impiegato nella discussione e nell’adozione di questa riforma ha consentito l’adozione di una disciplina che: a) riforma in modo chiaro e incisivo le competenze e le funzioni in materia di aree industriali; b) è al passo con le più recenti innovazioni costituzionali e legislative; c) appare in grado di favorire, grazie alla creazione di realtà più snelle, efficienti e trasparenti, l’insediamento delle imprese nelle aree industriali e dunque lo sviluppo delle attività economiche e industriali nella nostra regione.

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