Dagli studenti al Nobel: quel che l’Europa “ci chiede”, quel che l’Europa deve fare.

Dagli studenti al Nobel: quel che l’Europa “ci chiede”, quel che l’Europa deve fare.

Due buone notizie di ieri che ci fanno riflettere sulla storia e sulle prospettive dell’Europa unita. Comincio da quella apparentemente meno importante. Quando ho appreso che gli studenti, che manifestavano sulla base di dieci punti condivisibili, protestavano dinanzi alla sede di Roma del Parlamento europeo, ho pensato che intendessero criticare le politiche di equilibrio della finanza pubblica, dettate dal vincolo europeo. Intendiamoci, avrebbero avuto le loro buone ragioni, ma non credo avrebbero colto nel segno: rispettare le regole che insieme ci siamo dati a livello europeo è la condizione per andare verso l’unione fiscale e bancaria, e per poter affiancare la crescita alla disciplina dei bilanci nazionali.

In realtà – e questa è la buona notizia – il Parlamento Europeo è stato scelto per ricordare che quando diciamo “ce lo chiede l’Europa” non dobbiamo considerare solo tagli e sacrifici, ma anche più istruzione. Meno abbandoni scolastici, più laureati. Il punto è: abbiamo, con gli attuali vincoli di bilancio, la libertà e la possibilità di scegliere su queste cose? La risposta è sì, senza dubbio. Però finora l’Italia ha fatto le scelte sbagliate. I numeri parlano chiaro: l’Europa “ci chiede” che entro il 2020 il 40% di giovani siano laureati (nel 2010 eravamo poco sopra il 20%, contro una  media europea del 32,5%) e che la dispersione scolastica sia sotto il 10% (siamo vicini al 19%, con punte molto più alte nel Sud e nelle isole; media europea:14%). Le risposte sbagliate le ha date, per la precisione, l’Italia di Berlusconi: gli obiettivi minimi del  Programma nazionale di riforma del 2011 (26-27% di laureati, 15-16% di dispersione scolastica) ci porterebbero nel 2020 a essere indietro addirittura rispetto ai dati europei del 2010. Le scelte di governo sono state conseguenti, e hanno prodotto inevitabilmente gli effetti prevedibili: crisi economica, aumento delle tasse e diminuzione delle borse di studio non potevano che portare, ad esempio, a una diminuzione delle immatricolazioni all’università, che lo scorso anno sono calate del 10% rispetto all’anno precedente (il calo è di quasi il 20% rispetto a dieci anni fa).

Possiamo invertire la tendenza? Il governo Monti lo ha scritto nel suo PNR, ma finora ha fatto obiettivamente poco. Esempio: è possibile raddoppiare le risorse per il diritto allo studio mantenendo l’attuale livello di investimenti per l’università? Sì, il PD ha avanzato una proposta concreta e praticabile. Ci siamo opposti a qualsiasi aumento delle tasse per gli studenti, rendendo praticamente inefficace un provvedimento proposto dal governo nella “spending review”:  le tasse agli studenti non aumenteranno. Ma dobbiamo fare di più: per aumentare il livello di istruzione l’Italia deve compiere una scelta strategica, e portare le tasse universitarie – attualmente tra le più alte in Europa – al livello più basso dell’UE. Questa è una politica progressista, mentre, anche tra i candidati alle primarie, c’è chi sostiene l’aumento delle tasse, per far pagare l’università sempre di più dagli studenti-clienti: una scelta fallimentare, adottata solo in Gran Bretagna dal governo di destra, nel quale peraltro c’è anche chi ora si scusa per l’errore. Il tema è fondamentale, e sarà necessario tornarci.

La seconda notizia ci fa pensare alla nostra storia, e alle responsabilità per il futuro. È un bel giorno per l’Europa: il premio Nobel assegnato ieri all’Unione Europea riconosce l’indiscutibile successo di 60 anni di integrazione di un continente che aveva subito due guerre mondiali in trent’anni. Un premio anche alla capacità dell’UE di stimolare e promuovere il processo di democratizzazione dei paesi vicini e creare (nonostante momenti bui come durante la guerra nei Balcani) una grande area di pace e cooperazione. Il premio Nobel, però, rischia di essere un “premio alla carriera” se l’Europa non sarà capace di rifondare la sua ragione d’essere e continuare ad essere un modello di unione, che promuova la prosperità, la coesione sociale, i diritti e la democrazia. Per dirla con le parole di Romano Prodi, “l’Europa della pace è fatta, ora occorre fare l’Europa della solidarietà”.

Fatta l’Europa, facciamo gli europei” come, parafrasando D’Azeglio, dicemmo nell’appuntamento di Italia110 a Bruxelles lo scorso febbraio. La crisi sta facendo emergere per la prima volta una forma di opinione pubblica europea e le istituzioni devono procedere a un’integrazione politica che sia almeno pari a quella economica e finanziaria, come ha evidenziato alla conferenza  di Policy Network a Dublino, alla quale ho partecipato ieri, Loukas Tsoukalis. Per uscire dalla crisi, l’analisi dei progressisti europei è univoca: l’Europa deve ripartire dagli investimenti in educazione e ricerca, che sono fondamentali per assicurare una vera uguaglianza delle opportunità (o per garantire la “pre-distribution”, cioè ridurre le disuguaglianze alla base, prima dell’intervento di tasse e sussidi), come ha sottolineato Wendy Carlin dell’University College of London.

“L’Europa ce lo chiede” e l’opinione pubblica lo chiede all’Europa: l’educazione sia il pilastro della ripresa del nostro paese e del nostro continente. Lavoriamo perché questo pilastro sia l’architrave dell’agenda del prossimo governo di centrosinistra.