Diritto allo studio e riforma costituzionale: il mio intervento alla Camera del 10 Febbraio 2015
Intervento alla Camera dei Deputati, seduta n. 374 del 10 febbraio 2015
Esame della riforma della Parte II della Costituzione
Intervengo su questo emendamento per dichiarare il voto contrario del Partito democratico e per approfondire un tema che riguarda il sistema dell’istruzione. Faccio riferimento al diritto allo studio, che costituiva oggetto di un emendamento (il 31.206) di cui era prima firmataria l’on. Centemero e che era stato sottoscritto anche da me e dall’on. Ghizzoni, ma che è stato ritirato. L’emendamento mirava ad assegnare allo Stato la “promozione del diritto allo studio universitario”, che dunque non sarebbe più stata ricompresa – come nell’attuale testo sottoposto al nostro esame – tra le competenze regionali. In effetti riteniamo condivisibile il ritiro dell’emendamento, ma crediamo sia necessaria una precisazione riguardo al riparto delle competenze tra Stato e Regioni nella materia del diritto allo studio.
Una premessa: il diritto allo studio è trattato dall’articolo 34 della Costituzione, che ai commi 3 e 4 afferma: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”. La norma viene considerata, cito per tutti un giurista del calibro di Sabino Cassese, “una delle norme più importanti della Costituzione”, precisando però – lo fa Cassese nell’intervento al quale faccio riferimento, una lectio tenuta nel 2011 all’Istituto italiano di cultura di New York – che si tratta di una norma che “deve ancora essere messa in atto”.
E lo stesso presidente Mattarella, nel messaggio al Parlamento nel giorno del suo giuramento, ha citato il diritto allo studio per primo tra quelli attraverso i quali si realizza l’attuazione della Costituzione, definendolo “il diritto al futuro dei nostri ragazzi”.
Dunque, il quadro è questo: una norma, che afferma il diritto fondamentale della persona di disegnare il proprio percorso di vita potendo fruire di eque opportunità, potendo far valere talento e impegno almeno quanto le condizioni socio-economiche (e l’origine territoriale, in molti casi) di partenza, è sostanzialmente inattuato.
Ne pagano le conseguenze la mobilità e il dinamismo sociale e il benessere collettivo della nostra comunità nazionale, che non orienta in maniera opportuna i talenti e le vocazioni individuali.
La mancata attuazione di questo principio costituzionale è dimostrata dai dati oggettivi, ed è strettamente connessa al (basso) livello di istruzione e ai ritardi del nostro sistema universitario.
Il calo delle immatricolazioni universitarie, ad esempio, è una costante degli ultimi 10 anni, al di là delle ragioni demografiche: 338.036 immatricolati del 2003-2004, 267.177 nel 2012/2013. Ormai sono poco più della metà i diplomati che si iscrivono all’università, il 55,7% nell’anno accademico 2012-2013, mentre erano il 72,6% nell’anno 2003-2004.
Si sta verificando un fenomeno opposto a quello di cui avremmo bisogno. L’Italia, infatti, dovrebbe avere molti più laureati: per numero di laureati nella fascia di età 25-34 anni siamo al 34° posto su 37 paesi OCSE, e, mentre la Strategia Europa 2020 prevede entro il 2020 il 40% di laureati nella fascia 30-34 anni, attualmente l’Italia si colloca intorno al 20%, contro una media UE vicina al 35%.
Oggi l’istruzione universitaria in Italia si regge su un paradosso che inibisce le opportunità degli studenti: tasse molto elevate (terzi in Europa dopo Gran Bretagna e Paesi Bassi, che però vantano una spesa per studente quasi doppia) e un pessimo sistema di diritto allo studio, privo di risorse adeguate e di una vera regia nazionale. Infatti, ottiene una borsa di studio solo il 7% degli studenti, con circa 250 milioni di euro di fondi pubblici, contro il 25,6% della Francia (1,6 miliardi), il 30% della Germania (2 miliardi). Tra il 2008 e il 2012 i fondi per il diritto allo studio sono calato dell’11,2%, mentre negli altri grandi paesi europei è aumentato (Francia +25,9%, Germania +18,6%). Gli interventi degli ultimi due anni, pur positivi, sono stati certamente troppo timidi, e dunque insufficienti.
A ciò si aggiunge lo scandalo italiano degli idonei senza borsa: i dati MIUR 2012/13 ci dicono che su circa 170mila idonei, oltre il 20% non ha ottenuto la borsa. Solo in 6 regioni la borsa è assegnata a tutti gli idonei, mentre – ad esempio – i beneficiari sono solo il 77% degli aventi diritto nel Lazio, il 64% in Sardegna, il 61% in Piemonte, il 57% in Calabria, il 27% in Campania.
Lo diciamo spesso, ed è un dato oggettivo: l’istruzione – dunque scuola, università e diritto allo studio – deve diventare la priorità del nostro Paese. Deve diventarlo non solo nella retorica dei discorsi bensì nella concreta azione politica e di governo.
A questo scopo, è indispensabile, oltre alla programmazione di risorse finalmente adeguate, una chiara ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni in materia di diritto allo studio.
Credo dunque che sia importante chiarire – anche attraverso l’autorevole ausilio del relatore del provvedimento – come il testo costituzionale in via di approvazione definisca il riparto di competenze tra Stato e Regioni nei termini della delimitazione della competenza legislativa esclusiva regionale alla materia della ‘promozione’ del diritto allo studio, affidando conseguentemente allo Stato, nell’ambito della sua competenza piena sull’istruzione universitaria, quella sugli altri aspetti costitutivi del diritto allo studio universitario: dalla definizione dei principi e delle regole di organizzazione del sistema, all’assegnazione di borse, assegni e altre provvidenze, anche attraverso l’elaborazione di programmi per l’erogazione di borse di studio, istituiti da questo Parlamento già a partire dal 2013. Del resto, come evidenziano i dati che ho appena citato sulla erogazione delle borse di studio agli aventi diritto, limitare alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la sola determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), comporterebbe evidenti limiti nella effettività e nella uniformità della fruizione del diritto allo studio nel territorio nazionale.