E se il voto fosse una scossa salutare?

E se il voto fosse una scossa salutare?

bandiere pdIl giudizio che viene dai volti dei nostri elettori e militanti prevale sui giri di parole: il risultato elettorale è molto deludente per il Partito Democratico, oltre che lontano dall’esigenza di dare al Paese un governo forte e legittimato. Le ragioni di questo risultato, a mio avviso, sono un’utile guida per la nostra azione, sia quella rivolta a risolvere positivamente questa complessa crisi politica, che deve avere la priorità, sia quella legata al futuro del Pd: non si tratta semplicemente di navigare a vista per garantire la sopravvivenza del partito, ma di impegnarsi in un radicale ripensamento del suo profilo culturale e politico, anche in vista del prossimo congresso.

Cosa è accaduto. Qualche interpretazione del risultato elettorale.

Niente autocommiserazione né rituali “analisi della sconfitta”, ma chiarezza verso tutti e verso noi stessi: perché abbiamo dilapidato il vantaggio delle primarie, sprofondando l’Italia nel baratro dell’ingovernabilità? Mi concentrerò su tre principali ragioni, cui fanno da sfondo due fenomeni più generali.

La prima ragione riguarda il ruolo di Mario Monti, il quale, forse anche per le preoccupazioni avanzate in ambienti economici europei e internazionali, ha ritenuto con la sua candidatura di dover “riequilibrare” una sinistra condizionata dalle sue frazioni estreme, interne o esterne al Partito Democratico. Così ha sottoposto al giudizio elettorale l’azione di un governo tecnico, trasferita in una “agenda” di riforme che si definiva neutra ma in realtà era assai distante dalle esigenze di equità e di democrazia in Europa, oltre a contenere Fini e Casini. La figura di Monti è stata resa pallida e inconsistente dalla rinuncia al suo ruolo super partes e dall’esito delle urne. È stato punito anche chi, come il Pd, ha lealmente sostenuto le riforme essenziali del governo tecnico, riforme che – non giriamoci attorno – hanno ridato credibilità a un Paese alla frutta, prima di impantanarsi nel 2012. I cultori del senno di poi addebitano alla scelta di sostenere Monti, anziché alla sua trasformazione in una figura ambigua e contraddittoria, tutti i mali del Partito Democratico: dimenticano che quella scelta, pur con tutti i noti limiti legati anzitutto alla “strana maggioranza”, è stata condivisa da tutto il Partito. E che in ogni caso un’evoluzione di quel genere era l’unico modo per liberare l’Italia dal governo Berlusconi, che ahinoi godeva ancora, nel novembre 2011, della maggioranza parlamentare. Quale sia stato poi il ruolo giocato da alcune frange irresponsabili indubbiamente presenti nel Pd, più legate alla visibilità della prossima dichiarazione che alla condizione della prossima generazione, nell’ingenerare l’impressione di una limitata affidabilità del centrosinistra al governo è altra questione; certo questa impressione c’è stata, e non del tutto a torto. E non giriamo intorno nemmeno sul concetto di “responsabilità”, una parola che forse sarà passata di moda nella cronaca politica ma con cui non indichiamo in nessun modo l’alchimia delle alleanze: la responsabilità politica è la volontà e capacità di imprimere una direzione chiara e distinta al governo del Paese. Superati i pregiudizi, è stato chiaro a tutti – in primis agli investitori che finanziano il nostro debito acquistando i titoli di Stato – che il vero rischio non era certo la vittoria di un centrosinistra autosufficiente (perché di un governo forte e legittimato l’Italia avrebbe massimamente bisogno), ma l’ingovernabilità, l’incertezza, la mancanza di chiarezza.

In ogni caso, siamo sinceri: questa prima ragione è l’ultima in ordine di importanza e, soprattutto, non deve diventare un alibi per attribuire alle scelte degli altri (né tantomeno a quelle degli elettori) la responsabilità di una sconfitta politica. Può accadere che i giornali, disorientati in un contesto nuovo, scrivano sciocchezze: quando ciò accade, impariamo una volta per tutte a parlare ai cittadini e a parlare d’altro, non dei giornali stessi, altrimenti diventiamo noi quelle sciocchezze.

La seconda ragione parte da un’analisi oggettiva dei flussi elettorali, ma deve portarci molto oltre: il Movimento 5 Stelle ha guardato in faccia l’Italia e ha riempito la domanda di un cambiamento che riguarda tutta la classe politica. Il centro della campagna elettorale sono state le inchieste e gli scandali, dai rimborsi elettorali al caso Mps a Finmeccanica: è giunta a valle la valanga di 20 anni di illegalità e corruzione. Queste inchieste nella percezione dei cittadini riguardano l’intero ceto politico. Sono un “momento Tangentopoli” più grave del precedente anche perché, dopo la prima prova, parlano i risultati di un ventennio, che ciascuno ha sentito sulla propria pelle. Veniamo da 20 anni di “rendimento istituzionale” inadeguato, 20 anni in cui le condizioni economiche e sociali dei cittadini sono peggiorate, mentre “i politici”, oltre a essere più o meno sempre gli stessi, sembrano immuni dalla crisi di cui sono loro stessi corresponsabili. Sappiamo bene che la distinzione tra i governi del centrosinistra e quelli guidati da Berlusconi è nettissima; come sappiamo che il nostro atteggiamento nei confronti dell’illegalità e la corruzione è stato sempre altrettanto netto e fermo. Ma evidentemente non basta: da molti elettori il ceto politico è considerato nell’insieme colpevole (ed è colpevole chi, attraverso il “partito”, si autocertifica come “ceto”) e la proposta di alterità radicale viene premiata. Una domanda di giusta moralità per la politica, unitamente alle istanze di risposta a un disagio sociale che investe gli operai, gli artigiani, i disoccupati (in barba a chi riteneva l’asse della nostra politica il “lavoro subordinato”, senza che i deboli, o perlomeno molti di loro, i meno garantiti, abbiano capito che si parlava di loro), l’attenzione per l’ambiente, la richiesta di “facce nuove”, non sono messaggi neutri. Sono messaggi di cambiamento. E questo cambiamento è una forma di progresso. Messaggi non dissimili dai nostri, riassumibili nei concetti cardine della nostra proposta: legalità e crescita, o – per dirla con Bersani – “moralità e lavoro”. Messaggi che vengono da un elettorato largamente e generalmente “progressista”, come dimostrano le analisi dei flussi, come dimostrano le analisi delle piazze, degli uffici, dei mercati, dei discount, e come dimostrerebbe un’analisi più intelligente su cosa il termine “populismo” ha significato per la storia dei progressisti nel mondo, se solo guardiamo all’esperienza americana.

Il terzo problema siamo noi, il Partito Democratico. Credo che la nostra colpa principale sia stata non seguire fino in fondo la strada delle primarie e del meccanismo “maggioritario” di conquista, appunto, della maggioranza dei consensi. Invece, ha prevalso l’autoreferenzialità. Niente scuse: le campagne elettorali contano, contano moltissimo. Nessuno può vincere per inerzia. Abbiamo pensato di vincere “per diritto” e così, in due mesi, senza rendercene conto, abbiamo perso il nostro vantaggio, non accogliendo adeguatamente la domanda di democrazia delle primarie. Se vogliamo essere democratici, dobbiamo rivolgerci senza indugio a tutti i cittadini e abbandonare l’idea di una dialettica fondata esclusivamente sulla trasposizione meccanica della forza “identitaria” dei partiti. I partiti in quanto tali, del resto, sono privi di legittimazione, come da diversi anni afferma qualunque indagine e come abbiamo capito nella realtà di molti incontri di questa campagna elettorale, anche se non volevamo ammetterlo. Inoltre, c’è un motivo sostanziale: la credibilità dei partiti non si stabilisce più per decisione politica o per eredità storica,  ma per resa istituzionale. Tu non vali per la carica che ricopri. Tu vali solo per quello che fai. Corollario: i partiti e i politici non vanno “tutti a casa” solo se “fanno bene il loro lavoro”. Quale? Selezionare classe dirigente, elaborare programmi politici, proporli a tutti senza credere che la comunicazione sia una perversione della politica “seria”, aprirsi alla società senza indugi, tagliare il nodo gordiano della commistione tra economia e politica in tutti i livelli di governo e sottogoverno. Non basta: bisogna fare tutto questo costando poco, attraverso l’ascolto delle domande dei cittadini, attraverso proposte precise, attraverso leadership coraggiose e in grado di incarnare speranze. Queste elezioni, e la mobilità elettorale che hanno fatto emergere, ci dicono che occorre uscire una volta per tutte dalla cittadella identitaria e autoreferenziale del partito immaginato come titolare di una delega, in un’ottica da sistema proporzionale da Prima Repubblica, per essere competitivi nella democrazia maggioritaria e governante, nella quale una proposta di governo si incarna in leadership forti e democratiche. Tutto questo non vuol dire “suicidare” i partiti, ma percorrere l’unica strada possibile per il rinnovamento della democrazia, che non tollera torri e torrette d’avorio, in nessun luogo. In Italia e in Europa, perché la vicenda italiana è una profezia della storia più grande che investe il nostro continente. È una prima parola pronunciata da tante “generazioni perdute” in risposta al balbettio politico su una crisi infinita.

L’Europa, in effetti, è il primo dei fenomeni più generali che fanno da sfondo a queste elezioni. Quando si altera il rapporto tra lo spazio di espressione della rappresentanza (nazionale) e quello di decisione politica (europeo) il rischio di crisi della democrazia è elevatissimo, specie in tempi nei quali le decisioni politiche non sembrano portare benessere ma costituire un fattore di consolidamento strutturale di una china di decrescita senza speranze. L’Italia è un campanello d’allarme per l’Europa, sia riguardo al contenuto delle politiche – che se non cambiano portano consenso agli euroscetticismi contrapposti, e sarebbe peggio per tutti – sia al livello della condivisione della responsabilità politica, e dunque della definizione di un’arena democratica europea, per ora affidata a dichiarazioni, veti e simpatie delle classi dirigenti e non alle scelte dei cittadini. Diciamolo chiaramente: con questa politica economica, con questo bilancio asfittico, con questa articolazione istituzionale, l’Europa è destinata a un rapido fallimento. Se il voto italiano contribuirà a portare molta più Europa, con un trasferimento reale e democratico di sovranità verso il livello federale, sarà stato un gran bene.

Il secondo fenomeno è connesso al primo. La rappresentanza muta natura non solo verticalmente, ma anche a livello orizzontale: perdono funzione, se non si innovano profondamente, i mediatori degli interessi e della rappresentanza sociale, oltre che, come ormai noto, dell’informazione. È la “disintermediazione”, che in questa fase viene vista come una straordinaria opportunità da parte dei cittadini di avere accesso diretto alle informazioni, e di partecipare direttamente alle decisioni collettive, senza doverlo fare attraverso “corpi intermedi” i quali spesso appaiono più impegnati a proteggere il proprio ruolo – e il potere di chi li dirige – che ad aprirsi alla loro partecipazione. Corollario naturale: i cittadini “si organizzano” direttamente.

 

Cosa fare: chiarezza e democrazia.

Cosa fare? La prima prova di una diversa democrazia, capace di realizzare il cambiamento, viene proprio adesso. La campana suona per tutti noi: le prossime mosse, per il bene del Paese, devono conciliare responsabilità e democrazia. L’urgenza del momento e il coraggio dell’ascolto. Dobbiamo riconoscere di aver rappresentato un cambiamento parziale, che ha rivendicato l’esperienza ma era in realtà ben poco “esperto” dell’orientamento degli italiani. Il Partito Democratico ha cercato di unire il cambiamento e la tradizione, ha cercato di dare spazio alle nuove istanze e alle nuove domande, oltre alle esperienze di un ventennio che è ormai alle nostre spalle. Questa offerta “di tutto, di meno” non basta più: cambiare significa accogliere il cambiamento senza compromesso, e fare scelte molto chiare. Proprio nei momenti storici le forze tranquille, contente del loro passato, si riscoprono deboli, e il loro cambiamento timido è del tutto insufficiente.

Alcuni errori non possono essere più commessi. In Italia: mai più accordi strutturali con il PDL, responsabile di aver trasformato il tempio della democrazia in un mercato delle vacche, portandovi una intollerabile corruzione; mai più mesi di balletti inutili sulla legge elettorale per poi presentarsi davanti ai cittadini con un pugno di mosche; e nel PD mai più freni al cambiamento vero, non più uomini e soprattutto schemi e linee – spesso fallimentari – del passato. E quando pensiamo “largo ai giovani”, deve essere chiaro che i giovani di cui spesso parliamo lo sono in gran parte, a partire da chi scrive, per modo di dire: i giovani veri hanno 25 anni e per fortuna stanno comparendo prepotentemente sulla scena politica. Purtroppo, la nostra capacità di attrazione del loro voto è ai minimi termini: anche questo punto deve essere affrontato, se non vogliamo rassegnarci a competere con il PDL per il “premio Fatuzzo” o la palma di “partito dei pensionati”.

In Europa: mai più frasi fatte su “stiamo uscendo dalla crisi”, su “la crisi come opportunità”, ma solo rispetto per chi vive tutti i giorni la crisi dell’occupazione, per chi vive di fornitori, ritardi di pagamenti, dittatura burocratica, oppressione della tassazione sul lavoro, IRAP, e non vede diradarsi le sue nebbie dal proprio orizzonte di vita. Se in questi giorni l’Europa guarda all’Italia, deve imparare a fissare seriamente il suo disagio. Ora che l’intero progetto dell’Europa politica è in gioco, non possono più esservi politiche non condivise dalle popolazioni: la confusione ha già eretto muri pesanti, che oggi dividono l’Europa per linee geografiche, ma domani saranno ancor più alti, anche nei paesi sicuri, per faglie sociali. La politica, oggi, è capire assieme che la sicurezza non esiste. Chi tratta esclusivamente sulle prospettive finanziarie, senza considerare il rischio politico e sociale, non ha capito e continua a non capire: senza politica e società, le procedure, gli uffici e le scelte tecniche non stanno in piedi. Sono cieche, vuote, mute. Il baratro su cui si aggira l’Italia non deve essere più l’occasione per proporre “scelte inevitabili”, ma per imparare gli uni dagli altri, dato che facciamo parte dello stesso Paese: da una parte, si deve uscire da alcune semplificazioni e incertezze sulle finanze pubbliche che colpirebbero soprattutto i più deboli e i piccoli risparmiatori, dall’altra si deve essere più rigorosi e radicali (a partire dall’etica pubblica e dalla lotta alla corruzione) sulle questioni su cui la scorsa legislatura, anche nell’esperienza Monti, ha partorito il topolino.

Non partiamo da zero. Le primarie praticate costantemente, con regole stabili e condivise, disegnano il modello di un partito aperto alla partecipazione dei cittadini. Occorre andare avanti su questo punto, senza tentennamenti. Il ricambio, con la presenza numerosissima di donne e giovani che si è riscontrata in queste elezioni politiche, deve proseguire. La bussola ideale non sono le vecchie ricette degli anni ’90, ma la capacità di individuare le priorità politiche del centrosinistra di oggi – occupazione, equità, stato “utile” leggero e moderno, welfare universalistico per la crescita economica e coesione sociale, legalità e lotta alla corruzione. Lo spazio politico, per il futuro dei nostri cittadini e delle nostre imprese, è una nuova speranza europea, che poggi sui pilastri di una reale democrazia e di una politica economica di solidarietà, cooperazione, investimenti, perché l’austerità porta soltanto povertà e disperazione e perché la risposta alla “generazione perduta” di disoccupati dell’Europa del Sud deve avere la priorità su qualunque altra considerazione. Sono queste le basi solide dalle quali ripartire, perché che ci hanno consentito una tenuta elettorale in un momento di drammatica crisi economica e perché chiariscono l’urgenza del percorso che abbiamo davanti.

Prendiamo di petto il vero punto della questione, adesso: le vicende dei partiti politici (vecchi e nuovi) devono stare in secondo piano rispetto alle esigenze dei cittadini. Diciamo chiaramente cosa significa. Questo Parlamento, che consegna una rappresentanza nuova rispetto a quella dell’ultima legislatura, sarà una nuova occasione perduta, o può investire la nuova carica ed energia generazionale che rappresenta per concentrarsi sulle cose che servono all’Italia? Per quanto tempo possiamo parlare per frasi fatte e frasi vaghe, per quanto tempo possiamo stare a dire che ci vuole un po’ di una cosa e un po’ di un’altra? Per quanto tempo possiamo darci dei pagliacci a vicenda, visto che ci pensano già gli altri? Possiamo mostrare di migliorare, prendendo quei provvedimenti radicali – chiari e necessari – su cui il precedente Parlamento ha indugiato. Certo, la via è strettissima. Ma mantenendo i nervi saldi, e nel rispetto delle prerogative che la Costituzione assegna al Capo dello Stato, c’è lo spazio per proposte e decisioni in grado di far diventare il voto degli elettori una scossa salvifica per il sistema politico e per la nostra democrazia. Ci sono le urgenze da affrontare subito, a partire dagli esodati e dal sostegno all’occupazione. E ci sono gli elementi di moralità pubblica che non hanno come fine il mantenimento del “sistema dei partiti”, ma un rinnovato patto sociale. Garantire un “diritto alla semplicità” per il bene dei cittadini e non della burocrazia, incentrato su precisi e urgenti provvedimenti di semplificazione. Approvare una legge anticorruzione molto più aspra, che non tolleri le infiltrazioni del malaffare nella cosa pubblica. Prendere sul serio l’economia digitale, guardando alle esigenze infrastrutturali, sociali e democratiche che spiegano come costi di più non innovare che innovare. Costruire un sistema istituzionale radicalmente diverso: una legge elettorale che dia un vincitore, una sola assemblea rappresentativa che dia la fiducia al governo e un iter legislativo normale, dunque una rappresentanza chiara e snella. Liberare i cittadini dai costi della politica e dall’abbraccio mortale tra i partiti e l’incompetenza nel governo della cosa pubblica, non solo a Roma, ma anche nelle municipalizzate, nelle fondazioni bancarie, nella sanità.

Dobbiamo prepararci a realizzare questi punti ogni giorno, spiegando come intendiamo farlo nell’attività di governo e nell’attività parlamentare. Questo è il nostro compito, rispondere alle questioni reali mantenendo la nostra coerenza, e non certo rispondere, con l’ennesima dichiarazione, all’ennesima giravolta del blog di Beppe Grillo. Dobbiamo cambiare nel profondo il Pd, nella sua struttura, nella sua organizzazione, nella sua dirigenza. Dobbiamo spalancare le porte alla partecipazione dei giovani e dei competenti, rendere più aperti e contendibili i ruoli, superare incrostazioni e barriere che sono evidenti e note a tutti, sia a livello locale che centrale. O il Pd saprà diventare, senza ambiguità e ipocrisie, l’asse principale del cambiamento, oppure – in un’epoca di “volatilità” del consenso e delle stesse forze politiche – la sua strada è già segnata.