Elezione diretta del sindaco e sistema politico quindici anni dopo

Sono passati ormai quindici anni e forse inizia a perdersi la memoria dell’epoca in cui le giunte locali duravano in carica un tempo incredibilmente breve. Che fossero mediamente cinque mesi o due anni (nel caso dei capoluoghi di provincia) – con appena l’1% degli organi di governo locale che comunque riusciva a raggiungere la scadenza fisiologica della legislatura – prima della riforma del 1993 il mandato amministrativo nei comuni rappresentava una sorta di intermezzo tra una crisi e un’altra.

 

Crisi politiche in senso stretto, determinate perlopiù da scollamenti tra le varie componenti delle coalizioni alla guida dell’ente o da fratture all’interno dei partiti. In effetti, per molti anni nel nostro Paese l’amministrazione della città è stata una proiezione, su scala territoriale ridotta, delle dinamiche interne ai grandi partiti protagonisti della ribalta nazionale. Città, dunque, da intendersi come un tassello di equilibri più generali o come centro di articolazione prima, e irradiazione poi, delle carriere del personale politico. Il sindaco era «primo tra eguali», debole nei confronti dei partiti della coalizione che lo sosteneva e degli assessori, con un mandato programmatico farraginoso e indefinito. L’amministrazione quotidiana della città, il contenuto concreto dei programmi e dell’azione di governo venivano posti in secondo piano. A contare erano, piuttosto, le esigenze dei partiti e soprattutto il peso specifico dei singoli consiglieri comunali. Questi ultimi, una volta eletti, diventavano i detentori del potere di decretare vita e morte degli esecutivi, ed esercitavano il loro mandato rappresentativo sostanzialmente intervenendo nella cogestione dell’amministrazione e sui provvedimenti concreti. Dunque, giunte massimamente instabili e cariche di governo locale svuotate di ogni autorevolezza e incisività. Come risultato un «cattivo governo locale».

 

Difficile per i cittadini comprendere perché le prese di posizione delle segreterie di partito potessero sistematicamente avere effetto su aspetti quotidiani della propria vita, dall’erogazione dei servizi essenziali all’ordinaria manutenzione delle strade. Né, certamente, appariva comprensibile che le complesse vicende della democrazia italiana del secondo dopoguerra, che minavano la stabilità dei governi nazionali e impedivano l’effettivo realizzarsi una reale alternanza, si ripercuotessero anche sul livello locale. Il tutto, peraltro, nell’ambito di una crescente centralità del ruolo delle città, intese sempre più come luoghi di attrazione di risorse intellettuali, centri di attività economiche innovative, vere e proprie terre di frontiera delle sfide della società contemporanea, dall’integrazione delle comunità immigrate alle diverse declinazioni del disagio e della povertà. In questo quadro, e a fronte delle numerose difficoltà ad articolare risposte convincenti alle carenze dell’azione amministrativa locale, non stupisce che, nel momento in cui esplodeva la crisi della Prima Repubblica, il governo delle autonomie fosse già stato oggetto di prime, profonde, modifiche. è del 1990 la riforma dell’ordinamento delle autonomie locali (legge n. 142/1990), che però, anche in considerazione delle resistenze avanzate da un sistema dei partiti ancora ben saldo, evitava di intervenire sulla materia elettorale (Baldini 2002). Di lì a poco, tuttavia, il precipitare della crisi nazionale determinava la necessità di individuare soluzioni più radicali.

 

Nel 1993 la svolta, con l’elezione diretta del sindaco e del presidente di provincia. Ad essi è affidato il potere di nomina e revoca degli assessori (il cui ruolo è incompatibile con quello di consigliere), e la loro cessazione dal mandato (per dimissioni o in seguito a mozione di sfiducia consiliare) comporta la conclusione anticipata della legislatura. A queste trasformazioni si accompagna l’introduzione di un meccanismo elettorale maggioritario, nel senso che la coalizione di liste che sostiene il sindaco eletto ottiene il 60% dei seggi (con una eccezione nel caso di elezione al primo turno, che faceva scattare il premio solo qualora anche le liste collegate superassero almeno il 50% dei voti; in caso contrario, il sindaco non avrebbe avuto una maggioranza consiliare a suo sostegno; la legge 120/99 avrebbe successivamente ridotto tale percentuale al 40%). In sintesi, il sindaco eletto direttamente dai cittadini, chiamato a svolgere una pluralità di funzioni – è al contempo ufficiale del governo, vertice dell’amministrazione locale e capo di una maggioranza politica – diviene la figura centrale dell’amministrazione. E come tale si pone sia rispetto ai soggetti politici e al Consiglio comunale, sia nei confronti della città (Vaciago 2001). Le implicazioni di questa riforma sono di grande impatto e non si riducono al solo livello politico locale, in quanto si inseriscono in un più ampio processo di riforma dei meccanismi della rappresentanza e del potere esecutivo che ha interessato, in particolare tra il 1991 e il 1995, tutti i livelli di governo. La riforma del 1993 e il sistema cui essa ha dato vita sono, dunque, assai interessanti sotto molteplici punti di vista. In primo luogo come tali, ovvero con riferimento agli effetti prodotti sulla natura delle istituzioni locali, in termini di efficacia dell’azione amministrativa e di legittimazione democratica. Considerazioni, queste ultime, che a loro volta si articolano non solo in una valutazione del sistema politico locale, ma anche in relazione alla tipologia di azioni e interventi – di politiche– che è possibile realizzare in presenza di strumenti diversi e in larga misura innovativi. Da questo punto di vista, l’organicità della riforma – vale a dire la sua sostanziale stabilità nel tempo – permette di valutarne effetti positivi, elementi critici, zone d’ombra. Inquadrandola in una cornice più ampia, e ponendola in relazione con l’evoluzione del sistema politico nel suo complesso, è inoltre possibile esaminare influenza e correlazioni con gli altri livelli di governo. Anche allo scopo di verificare se e in quale misura essa abbia contribuito al realizzarsi di quei mutamenti di sistema e di cultura politica (ormai generalmente condivisi), che possono rappresentare la base di partenza per le riforme relative alla legge elettorare e alla forma di governo che le istituzioni repubblicane saranno chiamate a darsi già a partire dai prossimi mesi.

 

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