Enrico Letta: il Pd sembra il Pci, guardiamo ai moderati

«Questo bipolarismo è finito. L’elettorato non è bipolare, ma tripolare: diviso non tra destra e sinistra ma tra progressisti, moderati e populisti. Si tratta di unire progressisti e moderati, in un patto che non potrà includere né la Lega da una parte, né Di Pietro e i comunisti dall’altra. Dobbiamo costruire un nuovo Centro-sinistra: con la C di Centro maiuscola. Con un terzo dei voti non si vince: è evidente che dobbiamo rispacchettare tutto. Il Pd, così com’è, è condannato alla sconfitta: non a caso, come ha fatto notare per primo Marc Lazar, il suo insediamento elettorale coincide in modo impressionante con quello del Pci di trent’anni fa. Si tratta di andare oltre questo Pd, e anche oltre l’alleanza con Casini. Uscire dalla riserva indiana dei perdenti, e cambiare il sistema».

Sono giorni particolari e dolorosi per tutti, «in particolare per chi ha origini abruzzesi, come la mia famiglia» dice Enrico Letta. Davanti a sé ha le bozze del suo nuovo libro, che uscirà da Mondadori la prossima settimana. Un titolo che è una citazione del suo maestro, Nino Andreatta: Costruire una cattedrale; il rifiuto del «presentismo», dell’incapacità di guardare oltre la quotidianità e di preparare il futuro, come hanno saputo fare generazioni di artigiani e muratori che lavorarono a opere che non avrebbero mai viste compiute con i propri occhi. E un’impostazione quasi dialogica con il long-seller di Giulio Tremonti, La paura e la speranza.

Enrico Letta parte dalle medesime premesse del ministro dell’Economia: «La globalizzazione ci ha incastrati ». Gli Stati, la politica hanno abdicato al loro mestiere, e adesso occorre rimediare, scrivendo nuove regole: non a caso Letta fa parte, con Guido Rossi, Giulio Napolitano e Gustavo Visentini, della commissione bipartisan istituita da Tremonti per costruire un nuovo «legal standard» in vista del G8 della Maddalena. Ma Letta insiste sul concetto «più Stato, non meno mercato»: «Difesa del mercato e rilancio di un ruolo più attivo dello Stato, che non porti però a una nuova statalizzazione dell’economia »; puntando «su un’Europa più forte, anche grazie allo slancio del-l’ottima presidenza Sarkozy, piuttosto che sulle risposte nazionali».

Le riflessioni sulla crisi sono molto preoccupate: «C’è il rischio deindustrializzazione. Quattro milioni di piccoli imprenditori sono al bivio tra chiudere e tener duro: se mollassero, cambierebbe il modello Italia». Da qui le proposte: sì alla contrattazione decentrata — «legarsi alle ragioni della Cgil sarebbe l’ultima delle cose da fare» —; pagare subito, attraverso la Cassa Depositi e prestiti, i crediti delle imprese verso la pubblica amministrazione; fare ora la riforma per un nuovo welfare incentrato sulle donne, con congedo parentale obbligatorio per gli uomini; dare la priorità agli ammortizzatori sociali. E progettare una nuova architettura finanziaria europea e globale, au-mentando i poteri del Financial Stability Forum di Mario Draghi e attribuendo alla Bce le funzioni di vigilanza e sorveglianza in Europa.

Ma è sul capitolo dedicato alla politica che si concentrerà nell’immediato la discussione pubblica. Perché Letta disegna un quadro che prevede il superamento degli attuali schieramenti e anche degli attuali partiti. «L’addio di Veltroni chiude quindici anni di politica italiana; questo libro è il mio contributo ad andare oltre. Saranno decisivi i prossimi tre mesi. L’esito delle europee. E più ancora quello delle amministrative. Ce la stiamo mettendo tutta, ben guidati da Franceschini, per ottenere il miglior risultato possibile del Pd. E lo stesso impegno dopo le elezioni dovremo metterlo per un congresso che sposti l’asse del partito, lo aiuti a parlare agli elettori moderati, e a fare come Lorenzo Dellai in Trentino: l’unica regione dove abbiamo vinto perché il Pd si è impegnato in proprio e con alleanze larghe a convincere i moderati».

Costruire una cattedrale è anche una sorta di autobiografia politica. In cui Letta riconosce i meriti di Romano Prodi: «La rivalutazione concreta dell’opera del suo governo è già in corso». Individua i germi della crisi già nelle regole delle primarie, «concepite per un unico candidato, mentre il Pd sarebbe nato più forte e sano se la leadership di Veltroni fosse stata contesa anche da altri esponenti del suo partito di provenienza ». Proprio l’illusione di mantenere nel Pd le culture e gli organigrammi dei vecchi partiti è il peccato originale le cui conseguenze si vedono oggi. E’ il rischio della «mancanza di ambizione a governare», il male contagioso di cui soffre la Gauche francese, incline ad accontentarsi del controllo della piazza e dei governi locali. E’ «la vergogna di parlare ai moderati», un virus insito nel centrosinistra fin dal ’94, come Letta spiega rievocando un episodio inedito: «Dovevamo organizzare la convention per lanciare l’alleanza tra il Ppi di Martinazzoli e il Patto Segni. Kohl aveva dato il suo assenso. Si cercava un altro statista internazionale. Andreatta, allora ministro degli Esteri del governo Ciampi, mi mandò da Giscard. Non fu facile, ma alla fine l’ex presidente francese disse sì. A quel punto cominciarono le perplessità interne: ‘Un capo della destra, sia pure moderata, potrebbe non piacere alla nostra gente…’. Fu con grande imbarazzo che dovetti tornare da Giscard, chiedergli scusa e avvertirlo che avevamo cambiato idea. Come se avessimo appunto vergogna di parlare ai moderati. Di cambiare schema mettendo tutto in discussione. Di schierare in campo il Centro-sinistra del futuro».