Enrico Letta: «Io in campo con Bersani se lascia la socialdemocrazia»

Enrico Letta sta girando l’Italia per la campagna elettorale in vista dei ballottaggi: giovedì sera Milano, l’altro ieri Cinisello Balsamo, ieri Fidenza e Parma. Sono giorni in cui molti guardano a lui per il futuro del Pd, e Marco Follini gli chiede esplicitamente di candidarsi alla guida del partito. Dice però Letta: «Se viene archiviata la socialdemocrazia, come hanno fatto gli elettori europei, e se la sua candidatura si appoggia a una nuova generazione, sono pronto con le mie idee a scendere in campo a sostegno di Pierluigi Bersani». Non come vice, a ricostruire un tandem come quello tra Veltroni e Franceschini. «Ho sempre pensato che il ticket non sia una cosa saggia. In un partito nuovo, che ha bisogno di amalgama, non ha senso indicare un leader che venga dall’ex partito maggiore e un numero 2 che venga dall’ex partito minore. Non sono alla ricerca di posti. Ma intendo dare un contributo di idee».

Le idee esposte nel suo ultimo libro, Costruire un cattedrale, anticipato dal Corriere due mesi fa. «Conosco bene Bersani – dice ora Letta -, sono stato il suo compagno di strada nel viaggio attraverso i distretti, sono convinto che possa sposare quelle idee, e farle sue. Per come lo conosco, credo che pure lui consideri necessarie le svolte che gli chiedo». La prima occasione di confronto sarà domani pomeriggio, quando i due visiteranno insieme il distretto della ceramica di Sassuolo.

Ma quali sono le svolte che Letta chiede a Bersani? «Innanzitutto, il rinnovamento del gruppo dirigente, come ci indicano i cittadini che hanno premiato con un risultato che non può non far riflettere tre quarantenni alla prima esperienza elettorale come Debora Serracchiani nel Nord-Est, Francesca Balzani a Genova e Francesca Barracciu in Sardegna. O penso alle giovani energie che si sono forgiate sostenendo la mia candidatura controvento alle primarie del 2007. Condivido il documento Indietro non si torna del gruppo dei cosiddetti quarantenni; la candidatura di Bersani dev’essere la levatrice di una nuova classe dirigente del Pd. E deve segnare L’archiviazione della socialdemocrazia, come ci hanno indicato gli elettori europei, e la costruzione di una nuova identità del partito democratico. Finora non l’abbiamo costruita. La nostra identità non può, come mi è accaduto troppe volte di intuire, essere ridotta alle due figure di Moro e di Berlinguer. Il congresso è l’ultima occasione per fare del Pd un partito del futuro, anziché scrivere l’ultima pagina di un capitolo concepito nel passato». 

Al congresso, Letta porterà la sua idea di partito. «Un partito autonomo dal sindacato: il Pd faccia il suo mestiere, che non è quello di scioperare o firmare contratti, e l’autonomia farà bene pure al sindacato. Un partito che non ha paura di sposare sul contratto unico le tesi di Ichino e Boeri, né di tutelare il welfare futuro di donne e giovani trovando le risorse attraverso l’innalzamento dell’età pensionabile. Un partito deromanizzato, che valorizzi i territori; per cui si sta a Roma il meno possibile, si spostano risorse dal centro alla periferia – oggi le risorse finiscono tutte a Roma, mentre almeno la metà dev’essere redistribuita -, e in alcune zone ci si schiera al fianco di forze civiche e territoriali, sul modello dell’Unione per il Trentino di Dellai. Un partito che sposta le sue alleanze verso il centro, aprendo ai moderati per tornare a essere maggioranza; come hanno sostenuto in questi mesi Rutelli e Follini». 

Dice Letta che il Pd deve approfondire la propria riflessione sulla società italiana, «in particolare su tre mestieri umiliati e resi difficili in questo tempo: l’imprenditore, l’insegnante, il funzionario pubblico. Sono i tre mestieri da cui ripartire, perché fanno della società un motore di crescita, creatività, senso del dovere, investimento sul futuro. Oggi il Pd non prende più i voti dei piccoli imprenditori, che sono quasi tutti ex dipendenti e rappresentano la spina dorsale dell’economia italiana; in tempo di crisi, dobbiamo tornare a essere il loro punto di riferimento. Agli insegnanti e ai funzionari pubblici dobbiamo restituire l’orgoglio e la dignità del loro mestiere, che è stato così pesantemente umiliato. Sono andato a Pescara, a sostenere il nostro candidato sindaco, che non ce l’ha fatta ma è un giovane di grande valore, figlio del giudice Alessandrini. Suo padre fu messo a morte perché – sono parole dei suoi assassini – era il migliore dei magistrati della sua procura, l’uomo che faceva funzionare l’istituzione. Ecco i valori da cui dobbiamo ripartire».

Quello di Letta pare il programma di un leader. Perché allora non candidarsi in prima persona? «Non ho avuto paura della corsa solitaria nel 2007, non ne avrei paura adesso, se non si creassero le condizioni per un’ampia convergenza. Dipende da quanto Bersani vorrà interpretare queste e altre scelte di svolta».

Lo scenario che si delinea, con un mezza dozzina di autocandidature avanzate in pochi giorni, preoccupa Letta: «La balcanizzazione non ci aiuta, semmai è importante aggregare». Non al prezzo dell’unanimismo, però. «Il prossimo congresso è la nostra ultima occasione. Dev’essere un congresso autentico. Per questo sarebbe bene che il mondo ex Ds si dividesse tra più candidati, per evitare l’errore del 2007, quando attorno a Veltroni si strinsero sia sostenitori sia detrattori. Mancò solo che si facesse una lista Nemici di Veltroni per Veltroni». 

Così come è inutile e controproducente ipotizzare un Pd con tutti dentro, come chiedono Ferrara, Adinolfi, Sansonetti: «E’ il momento di tornare alle alleanze, non di inglobare e distruggere i nostri alleati». E D’Alema? «Non sono certo io a poter stabilire quale spazio possa avere D’Alema».

E Franceschini? «Rivendico di essere stato uno dei pochi, quasi l’unico, a difenderlo in ogni momento della campagna elettorale, anche quando da altri arrivavano i rimbrotti, anche quando ha espresso le posizioni più estreme. In vista del congresso, ritengo di poter esprimere le mie idee; ma la mia solidarietà a Franceschini non è mai venuta meno, né il riconoscimento per il suo lavoro verrà meno, qualsiasi scelta congressuale intenda fare Dalle elezioni il Pd è uscito allo stremo, ma ancora vivo. Sento che i ballottaggi andranno bene per noi. E sono d’accordo con Follini: il voto rappresenta la prima smagliatura nel tessuto di consenso di Berlusconi. Per la prima volta, il centrodestra va meglio alle amministrative, dove la faccia di Berlusconi non c’è, che nel voto nazionale, in cui la campagna sballata del capo viene punita. Il Pd deve cogliere questo segnale, e uscire in fretta dalla sua transizione».