HuffPost – Renzi lascia, ma anche no. E nel Pd ormai è guerra: si rompe l’asso con Gentiloni

HuffPost – Renzi lascia, ma anche no. E nel Pd ormai è guerra: si rompe l’asso con Gentiloni

Tratto da HuffPost – 5 marzo 2018

“Le mie dimissioni scattano il giorno dell’assemblea del Pd che sarà convocata dopo l’insediamento del nuovo Parlamento e di un nuovo governo. Nel frattempo, il Pd è all’opposizione. Mi sembra di essere stato chiaro…”.

La conferenza stampa nella sala gremita al terzo piano del Nazareno è appena finita. Incrociamo Matteo Renzi nella scalinata che porta al piano di sotto: abito scuro e cravatta, è visibilmente sfiancato, ma incredibilmente contento.

Perché dopo quasi 24 ore di ripensamenti, ha trovato la ‘sua soluzione’ alla debacle elettorale del Pd. Vale a dire annunciare le dimissioni da segretario, senza andarsene davvero. Rimandarle all’assemblea congressuale solo dopo la formazione di un nuovo governo: cioè chissà quando. Soprattutto attestare il Pd su una irrevocabile linea di opposizione ad un eventuale esecutivo con il M5s. Su questo Renzi si gioca la sua ultima (chissà se ultima) partita, determinato a sfidare anche il Quirinale, gli appelli alla responsabilità e la parte del Pd più sensibile ai richiami del Colle.
Nel partito scatena la guerra vera. “Se avessimo votato con la Francia (primavera scorsa, ndr) o con la Germania (a settembre, ndr) sarebbe stato diverso. Non abbiamo colto quella opportunità e in questa campagna siamo stati fin troppo tecnici”, attacca in conferenza stampa, conscio di tirare in ballo il Colle e la scelta del presidente della Repubblica Sergio Mattarella di non anticipare lo scioglimento della legislatura.

Ma stavolta il partito reagisce. Ha da dire anche Carlo Calenda, uno che stamane ha twittato la sua scelta di non partecipare alla “lapidazione pubblica di Renzi”, uno che pure si dice d’accordo con la linea renziana del “no al governo con il M5s”. Eppure stasera il ministro sottolinea: “Trovo fuori dal mondo l’idea che la responsabilità della sconfitta sia di Gentiloni, Mattarella (per voto 2017) e di una campagna troppo tecnica…”.

Ma il dato più inedito di questo post-elezioni è che Renzi rompe con Paolo Gentiloni.

Non si sono parlati oggi, ma il segretario sa che il premier è schierato con Luigi Zanda, il capogruppo uscente in Senato che diffonde una nota di fuoco, condivisa da quella parte del partito più in contatto con il Quirinale. “La decisione di Matteo Renzi di dimettersi e contemporaneamente rinviare la data delle dimissioni non è comprensibile. Serve solo a prendere ancora tempo”, attacca Zanda. Con lui anche Marco Minniti, Anna Finocchiaro: insomma la parte di governo meno renziana. E i lettiani: “Le sue sono dimissioni fake”, dice Marco Meloni.

Di fatto, nel post-voto si consuma l’ultimo atto della sfida sotterranea tra Renzi e Gentiloni, cominciata a ottobre con l’attacco dei Dem al governatore di Bankitalia Ignazio Visco, non condivisa dal premier e – ca va sans dire – nemmeno da Mattarella. Ecco, dopo le politiche tutto questo è arrivato a maturazione: terminale.

E Graziano Delrio? Renzi ci ha parlato a lungo al telefono oggi, confida di averlo ancora dalla sua parte. Ma il ministro ufficialmente non si esprime. E alla conferenza stampa serale al Nazareno è assente Matteo Richetti, vicino al ministro delle Infrastrutture, sempre con rapporti burrascosi con il segretario. Oggi Richetti si è confrontato con lui, ma a sera la sua assenza e il suo silenzio si notano. Non c’è tra tutti gli altri che invece sono lì con il capo: Maurizio Martina, ma anche Piero Fassino, Ettore Rosato, Lorenzo Guerini, Francesco Bonifazi, Gennaro Migliore, Simona Bonafè, Matteo Orfini. Tutti presenti a dare coralità ad una conferenza stampa che apre di fatto le ostilità nel Pd.

E’ con loro che Renzi ha maturato la sua strategia, dicono dalla cerchia stretta del segretario. Pare che in mattinata fosse intenzionato a mollare e basta. Ma poi si è lasciato convincere dal fedelissimo Luca Lotti e dal sottosegretario allo Sviluppo Economico Antonello Giacomelli, anche lui presente alla conferenza stampa, rimandata di mezz’ora in mezz’ora, complicata la decisione da annunciare. A un certo punto del pomeriggio al Nazareno arriva anche Maria Elena Boschi, un’altra certezza del segretario.

Renzi si presenta davanti alle telecamere alle 18.30 e pianta i suoi paletti, ancora una volta. Tuona contro “caminetti e inciuci”. Ce l’ha con la minoranza orlandiana che ha provato a chiedere le sue dimissioni e una “gestione unitaria” fino al congresso: respinta. “Il prossimo segretario verrà deciso con le primarie”, stabilisce. Ce l’ha anche con tutto il corpaccione Pd di maggioranza, che gli si muove contro facendo propri i prevedibili richiami di Mattarella alla responsabilità di formare un governo, fosse anche con il M5s.

Punta a spaccare questo schema per restare in partita: chi ci sta, ci sta. Nel frattempo, da segretario ‘dimissionario-ma-anche-no’, gestirà i passaggi più impegnativi di inizio legislatura: dall’elezione dei capigruppo, a quella dei presidenti delle Camere, fino alle consultazioni al Colle. E lì la linea sarà: “il Pd sta all’opposizione”, su questo discrimine vuole giocarsi il congresso.

Per poi ricandidarsi? “Farò il senatore semplice”, dice sardonico nelle scale del Nazareno, “o il presidente del Cnel…”. Intanto così prende tempo. E chissà se alla fine il Pd resterà unito, dipende anche da come risponderanno i nuovi gruppi parlamentari, di nomina in gran parte renziana.

“Bisogna dare ascolto alla nostra comunità di base, non alle aree interne”, ci dice in ascensore il responsabile organizzazione Andrea Rossi. A giorni la convocazione della direzione nazionale (o venerdì o lunedì prossimi): sarà il primo test della linea post-elettorale