Il futuro dell’università: Agenda Giavazzi o Agenda Bersani?

Il futuro dell’università: Agenda Giavazzi o Agenda Bersani?

Su lavoce.info, il professor Francesco Giavazzi, dopo aver considerato i problemi italiani della crescita, si dichiara preoccupato dalle “affermazioni di Pierluigi Bersani, il possibile futuro presidente del consiglio”. In particolare, è preoccupato dalle affermazioni di Bersani secondo cui non bisogna “dare schiaffi agli insegnanti”, ma considerarne il ruolo e la dignità nella società. Parole che secondo Giavazzi vanno lette in codice, e nascondono il linguaggio di chi non vuole cambiare e affrontare i nodi dello sviluppo del paese, nella scuola come nell’università, su cui Giavazzi, dopo aver citato gli immancabili “laureati di Scienze della comunicazione”, per chiedersi retoricamente se “questo paese davvero abbia bisogno di più laureati”, afferma che oggi i poveri pagano un’università “sostanzialmente gratuita per i figli dei ricchi”, lamentandosi della timidezza di Bersani nel non voler aumentare le tasse universitarie.

Cerchiamo di fare un po’ d’ordine, in riferimento all’università e al suo ruolo per lo sviluppo del Paese, nel pensiero di Giavazzi, il quale appena due anni fa affermava senza esitazioni: “la legge Gelmini è il meglio che oggi si possa ottenere data la cultura della nostra classe politica”. Oggi, in Europa, la legge Gelmini non è pervenuta (lo è, purtroppo, in Italia, e sta bloccando la nostra università), mentre si confrontano due modelli: quello continentale (tasse basse o inesistenti) e quello anglosassone, modificato due anni fa da Cameron con la possibilità di innalzare le tasse universitarie a 9.000 sterline, colta al balzo da tutti gli atenei (non solo i migliori). Gli effetti negativi sono già evidenti: iscrizioni in calo e rientro del debito a rischio a causa della recessione.

L’Italia oggi coniuga il peggio di entrambi i sistemi: le tasse più elevate nell’ambito del sistema “continentale” e il peggior sistema di diritto allo studio. Solo il 7% degli studenti ha una borsa di studio (258 milioni di euro di fondi pubblici), ma siamo al terzo posto per la tassazione in Europa (1289 dollari all’anno, nel 2009), dopo Regno Unito e Paesi Bassi (rispettivamente a 4700$, prima della “riforma Cameron”, e 1860$), in cui però il costo per studente è, rispettivamente, di 16.338 e 17.854 dollari, contro i nostri 9.562.

Giavazzi e altri sostengono il modello anglosassone anche da noi partendo dal presupposto che le tasse universitarie sarebbero troppo basse rispetto al costo di ciascuno studente e che l’università, pagata da tutti, è frequentata dai ceti medio-alti. Perciò, “i poveri pagano l’università ai ricchi”. Ciò è falso per il primo punto (le tasse in Italia sono già alte) e discutibile per il secondo. A parte il fatto che i “ricchi”, al netto dell’evasione fiscale, sono anche quelli che pagano più tasse, è una visione statica del quadro attuale: per esempio, con tasse inferiori e più borse di studio potremmo avere più studenti da famiglie meno abbienti. Sempre a causa della mancanza di una visione complessiva dinamica, dire che l’università è regressiva non tiene conto delle esternalità che un laureato avrà sulla società intera.

La vera sfida è aprire l’università a fasce più ampie, chiedendo di più (maggiore progressività) a chi se lo può permettere, a maggior ragione se in ritardo con gli studi, come abbiamo proposto al governo Monti. La tassazione media non solo non deve essere aumentata, ma diminuita: non perché (come vorrebbe Giavazzi), lo sostengano i sindacati dei docenti, ma per riportarla nella media UE. Come è noto, i nostri investimenti in istruzione terziaria (1% del PIL nel 2009) ci vedono penultimi a livello OCSE (1.6% del PIL) ed UE (1.4%). Inoltre, come spiega il rapporto Giarda, nel silenzio generale l’Italia negli ultimi 20 anni ha ridotto enormemente (-5,6% della spesa pubblica) gli investimenti in istruzione. Così la qualità diffusa evapora, e i veri benestanti (chi se lo può permettere) andranno nelle private o all’estero. Con tanti saluti alla retorica su merito, mobilità, circolazione dei cervelli.

Il prof. Giavazzi ci insegna che l’istruzione è uno dei fattori chiave di crescita strutturale con ricadute che vanno ben oltre i beneficiari (le esternalità di cui sopra). Si tratta, dunque, di un investimento che, come avviene in Germania e in tutta l’Europa continentale, non può essere lasciato solo al mercato, e si tratta di un investimento fondamentale per la crescita del Paese, in particolare in un contesto di consolidamento di bilancio e revisione della spesa per altri settori.

“Siamo sicuri che questo paese davvero abbia bisogno di più laureati?”, si chiede, come dicevo, Giavazzi. A rispondergli sono i dati: siamo uno dei paesi UE con la più bassa percentuale di laureati (circa il 21% tra i 25/34enni, media UE 32,5%). Come ha notato Bersani, i nostri giovani si iscrivono sempre meno all’università (-10% nell’ultimo anno). Il crepuscolo del diritto allo studio ha un’altra inevitabile conseguenza: solo il 9% di figli di genitori non diplomati completa l’università (media OCSE 20%, i principali paesi europei sono tra il 30 e il 40%).

Allora, il nostro primo obiettivo è fermare la “fuga dall’università” che facilita la trasmissione ereditaria delle professioni, che rappresenta una delle principali cause della perdita di speranza nel futuro di alcune generazioni di giovani. La riproduzione oligarchica delle fasce sociali è uno dei freni fondamentali che bloccano l’economia italiana ed era la paura principale che animava l’inventore dell’espressione “meritocrazia”, il laburista Michael Young. È sorprendente che il professor Giavazzi si affianchi alle campagne di disinformazione di quanti, negli ultimi dieci anni, hanno affermato – anche in documenti ufficiali del governo – che il problema italiano è “evitare che i diplomati si riversino nell’università”. Giavazzi è, d’altra parte, un protagonista del dibattito pubblico su crescita e competitività nel nostro Paese, anche perché ha curato, su incarico del governo Monti, un Rapporto di “Analisi e Raccomandazioni sui Contributi Pubblici alle Imprese”. Non voglio perciò pensare che egli condivida la visione berlusconiana dei processi di innovazione nel settore manifatturiero (“per fare delle scarpe non occorre mica la laurea”). Tutti gli argomenti legati a un migliore orientamento, a un potenziamento dell’istruzione tecnica superiore (la cui istituzione si deve ai governi dell’Ulivo di cui anche Bersani faceva parte) e alla necessità di rendere più efficiente il nostro sistema universitario, dopo il chiaro fallimento della riforma Gelmini, potranno fondarsi solo sull’innalzamento del livello complessivo di istruzione, recuperando il nostro ritardo su tassi di dispersione scolastica e laureati.

Per questo motivo il PD guidato da Bersani sostiene un moderno modello europeo continentale, radicalmente diverso dalla brutta copia di quello anglosassone.

Marco Meloni

Responsabile Università e Ricerca Partito Democratico

Il documento completo con i dati si trova qui: http://erasmus.comunita.unita.it/2012/11/05/primarie-e-programma-universita-tasse-giovani/.