Il secchio bucato della burocrazia ministeriale
In questi giorni numerosi gruppi e associazioni ci stanno interrogando sulle nostre idee sul futuro dell’università. L’attenzione, com’è naturale, si concentra spesso sulle risorse. Effettivamente questo è il primo punto dirimente, nonostante in questi anni il discorso pubblico sia stato purtroppo dominato dalla retorica del «secchio bucato» secondo la quale i sistemi della ricerca pubblica e dell’università sarebbero così inefficienti che le risorse che vi si investono sono perdute. L’Italia è il fanalino di coda tra i paesi UE per le spese in ricerca (1,26% del PIL contro una media del 2,01%) e in più l’evoluzione storica della composizione della spesa pubblica italiana, così come evidenziato dal Rapporto Giarda, che abbiamo già richiamato su questo blog, mostra come le spese in istruzione/ricerca siano diminuite del 5,4% in vent’anni rispetto al totale. Se il PD sarà al Governo l’impegno è quello di aumentare in valore assoluto e in percentuale rispetto al PIL la spesa in ricerca: quest’intenzione è la cifra della nostra scommessa sul futuro del Paese, su cui torneremo in seguito.
Ma oggi mi preme sottolineare un altro aspetto: più fondi a università e ricerca, per incidere veramente, vanno accompagnati da un ripensamento generale del rapporto tra ricercatori e ministeri. Come Dipartimento Università e Ricerca abbiamo pubblicato un documento per descrivere l’esperienza “kafkiana” di un ricercatore italiano alle prese con bandi oscuri, firme e certificazioni varie così complicate che hanno come risultato solo la proliferazione delle società di consulenza apposite e non del numero di pubblicazioni e brevetti delle nostre università ed enti di ricerca.
La triste conclusione a cui siamo arrivati è che gli strumenti MIUR e MiSE per il finanziamento di progetti di ricerca industriale troppe volte, al posto di incentivare la ricerca, invogliano molte grandi imprese e PMI a non chiedere finanziamenti pubblici per cofinanziare i processi di innovazione aziendali, sia per non incorrere in problemi di liquidità di cassa sia per non impazzire nella preparazione e nella rendicontazione. Oltre a più risorse (forse direi addirittura, prima di nuove risorse) bisogna intervenire su questi freni burocratici inaccettabili, per cui sembra che la burocrazia debba avere il primato sulla ricerca, che per partire ha bisogno di più fiducia e di meno fideiussioni obbligatorie.
Nel Documento che abbiamo pubblicato online e che è aperto ai commenti e ai contributi di tutti coloro che hanno avuto esperienze simili, diamo una prospettiva chiara: partiamo dall’introduzione di un sistema europeo per la “burocrazia della ricerca”. Nel dettaglio, come scriviamo alla fine del documento, questo vuol dire adottare gli strumenti del Settimo Programma Quadro dell’UE. Per esempio, nell’esperienza UE, i ricercatori si rivolgono a un unico portale, aggiornato e condiviso, per tutta la documentazione utile, a un unico portale per tutte le informazioni e gli strumenti utili, e possono presentare la proposta on-line, senza bisogno di firme. Durante la fase di valutazione della proposta, si dà maggiore importanza al contenuto tecnico-scientifico, alla proposta di implementazione e all’impatto atteso rispetto agli aspetti burocratici. I ricercatori ricevono l’anticipo di buona parte del finanziamento da subito e senza richiedere fideiussioni: questa fiducia (con rigorosi controlli successivi) è fondamentale per dedicarsi da subito all’attività di ricerca. Un metodo meramente “ragionieristico” o “burocratico” non è improntato all’innovazione. Di conseguenza, dobbiamo cambiare profondamente l’approccio delle strutture ministeriali.
Ovviamente anche il modello europeo è perfettibile, ed è importante una rappresentanza attenta dell’Italia nei gruppi di lavoro dell’Unione Europea, per elaborare modelli ancora migliori del Settimo Programma Quadro. Intanto, cominciamo da queste misure di buon senso. Da qui vogliamo ripartire una volta al Governo.