Innovazione, premialità, talenti per la crescita e la competitività.
Senza carbone nell’età del vapore. Potrebbe riassumersi così, mutuando la definizione dello storico Carlo Bardini, la vicenda della prima industrializzazione italiana. Inizi del Novecento: poche materie prime e ambiente economico sfavorevole all’avvio di quel processo di accumulazione della ricchezza tipico dei Paesi first comers nella rivoluzione industriale. Poi il salto di qualità nella chimica e nella meccanica, la ricostruzione postbellica e il boom economico, fino alla stagione d’oro dei distretti industriali. Così, in meno di un secolo, l’Italia è riuscita a entrare nel club nei paesi più industrializzati, partendo da una posizione di svantaggio competitivo oggettivo.
Oggi ci troviamo a dover fare i conti con un altro tipo di deficit strutturale, stavolta imputabile a una lunga serie di scelte di politica economica poco lungimiranti. Senza innovazione nell’età della tecnologia, con poco capitale umano qualificato nell’epoca dei talenti: questi, semplificando, alcuni dei termini di un dibattito attorno al quale ci confrontiamo ormai da troppi mesi, nel tentativo di indagare sulle cause del declino, assoluto o relativo, dell’economia italiana. Un calo di appeal che del resto si riflette sui livelli di competitività del Paese, scivolato a metà classifica in tutte graduatorie internazionali. Perdiamo annualmente quote del mercato mondiale, sia nei settori tradizionali del made in Italy che nei segmenti più dinamici della domanda globale, dove a fare la differenza è, appunto, la capacità di inventare, di mettersi in gioco, di modernizzare.
Al di là delle singole diagnosi sui vizi del capitalismo nazionale, in discussione sono soprattutto un modello di sviluppo e una specializzazione produttiva obsoleti, inadatti non solo a competere con il dinamismo dei Paesi emergenti, ma anche a sostenere il confronto con le realtà europee che più ci assomigliano – Francia, Spagna, Germania e Regno Unito – e che, però, negli ultimi anni sono riuscite, sia pure con modalità distinte, a rimodulare la propria vocazione produttiva in funzione delle esigenze della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica.
Dinanzi a questo declassamento non possiamo limitarci a mere strategie di difesa, o alla ricerca di alibi evanescenti, come le presunte responsabilità dell’euro. È necessario, piuttosto, trovare le risorse per contrattaccare. Abbiamo a disposizione esempi anche recenti di paesi che, contro ogni previsione, sono stati in grado di sventare il pericolo declino, catalizzando le proprie migliori energie in questa direzione. Basti pensare al dinamismo del Giappone e al suo riposizionamento in risposta alla competizione aggressiva della Cina. Con la quale, beninteso, si vince – l’Europa può vincere – solo giocando in attacco. La nostra stessa storia economica, del resto, può indicarci la strada. Come agli inizi del secolo scorso, l’Italia deve ancora una volta reinventare la propria missione in un mondo che cambia. Serve però un grande sforzo collettivo, che investa di responsabilità tutto il corpo sociale, unendo i cittadini, i territori, i corpi intermedi. Per l’inversione di rotta bisogna affrontare i fattori di sistema che ostacolano la competitività: il dualismo Nord/Sud, la mancanza di concorrenza, il deficit infrastrutturale, l’instabilità del sistema istituzionale, le difficoltà di accesso ai capitali.
Tramontati gli entusiasmi nei confronti di un mercato lasciato in balia di se stesso, le istituzioni devono tornare a indirizzare i processi di sviluppo. Archiviando l’interventismo a pioggia e le manovre finanziarie dei condoni e scommettendo, invece, sulla qualità della spesa pubblica. È questo l’approccio che ispira la nostra proposta per un fisco a premi, che finalmente incoraggi chi fa bene, incentivando gli investimenti nel Sud, quelli privati in innovazione e ricerca, e favorendo la crescita dimensionale delle imprese. Lo strumento fiscale può così contribuire a definire una nuova politica industriale, sostenendo sia le fusioni e le integrazioni delle medie imprese che vogliono crescere, soprattutto nei settori in difficoltà, sia le aggregazioni funzionali tra le piccole aziende che si mettono insieme – pur senza sacrificare la propria autonomia – per fare innovazione, ricerca, internazionalizzazione. Per quanto riguarda in particolare il Mezzogiorno, occorre una sorta di terapia d’urto di qualità, che sostenga investimenti mirati in funzione di obiettivi di crescita, di aumento dell’occupazione, e in linea con i principio della selettività degli interventi e della sussidiarietà nella programmazione per lo sviluppo. Di fronte ai limiti di un decentramento dissennato e all’esplosione dei bilanci regionali, è necessario poi da un lato promuovere – specie nell’imminenza della riforma della politica di coesione dell’Ue – una reale «europeizzazione» del Mezzogiorno, e dall’altro garantire l’impegno costante dell’amministrazione centrale: una proposta in tale direzione è stabilire che la spesa per investimenti al Sud non sia mai inferiore al 50% del totale, almeno fino al 2008.
Più in generale, in tema di internazionalizzazione, l’intero sistema imprenditoriale italiano si trova oggi di fronte a un bivio: modernizzarsi per conquistare segmenti di mercato ad alto valore aggiunto, oppure cercare di sopravvivere in nicchie di mercato sempre più erose da economie labour intensive in fermento. Cercare la competizione sul costo della manodopera, tuttavia, significa per le nostre imprese condannarsi alla sconfitta, tanto più al termine di oltre un decennio di moderazione salariale. Meglio, come detto, affidarsi alla qualità e valorizzare un patrimonio di cervelli al momento largamente inutilizzato. In questa prospettiva, accanto alle altre politiche orizzontali che incidono sui fattori di contesto, la formazione di base e quella universitaria giocano un ruolo cruciale. Il tasso dei laureati sul totale della popolazione è nel nostro Paese tra i più bassi d’Europa, specie nelle discipline scientifiche. Da un ripensamento dell’intero sistema formativo italiano passa, a mio avviso, una delle potenziali direttrici del nostro sviluppo nel prossimo futuro. Ma, anche in questo caso, occorre riscoprire la capacità di fare scelte coraggiose e indipendenti dalla ricerca del consenso a tutti i costi. Dicendo, ad esempio, no alla progressiva liceizzazione delle università – di questo passo rischiamo di contarne una per ciascuno dei campanili delle «cento città italiane» – e investendo invece sull’eccellenza e sui talenti. Nei prossimi cinque anni avremo bisogno di circa 240.000 ingegneri, da reclutare anche attraverso una politica per l’immigrazione più selettiva e audace. Non possiamo più permetterci di reclutare forza lavoro sulla base della forza fisica. Tolleranza, talenti e tecnologia, per riprendere Florida, devono procedere di pari passo. Porte aperte, dunque, agli immigrati qualificati, meglio se ingeneri elettronici.
Innovazione, premialità, conoscenza: ecco i tre assi intorno ai quali è possibile immaginare una crescita di qualità e sostenibile, nella quale il rilancio della competitività del Paese si coniughi con la promozione delle opportunità e con la tutela dei lavoratori e dei consumatori. È questa, a mio avviso, la visione del futuro che il centrosinistra dovrà essere in grado di proporre agli elettori nei prossimi mesi.