La sfida dei montiani del Pd

Con o contro Monti a secondo delle convenienze: l’opportunismo dell’Idv ha stancato gli (ex) alleati. Nella pancia del Partito democratico c’è una nuova, robusta, combattiva e ambiziosa creatura politica che sta prendendo forma con una velocità sorprendente, e che da qui alla fine della legislatura cercherà di conquistare sempre più spazio all’interno del centrosinistra. Questa strana creatura, a voler essere sinceri, aveva offerto diversi segnali di vitalità ben prima dell’arrivo di Mario Monti a Palazzo Chigi, ma la verità è che da quando l’ex numero uno della Bocconi si è insediato alla guida del governo non passa giorno senza che i sismografi di Montecitorio non rilevino la presenza sempre più rumorosa di questo nuovo soggetto politico. Un soggetto, per capirci, formato da un gruppo massiccio di esponenti del Pd (tra il 45 per cento e il 50 per cento del partito) tutti accomunati dall’idea che sia arrivato il momento di togliersi di dosso le catene del vendolismo, del dipietrismo, del cigiellismo, del vastismo, dell’anti riformismo e dell’anti liberismo; e tutti convinti insomma che la partecipazione più o meno diretta all’esperienza Monti possa avere per il Pd lo stesso effetto purificatore di una lunga immersione nelle acque del Giordano.

Nel centrosinistra, proprio per il rapporto coltivato da questi esponenti del Pd con alcuni tra i volti chiave del governo Monti, questa strana creatura, che spesso si muove in modo non simmetrico rispetto alle traiettorie imboccate dal segretario del Pd, è stata ribattezzata con una definizione che spiega bene la matrice culturale di questo nuovo soggetto politico: “Il partito dei Monti boys”. E la definizione, a quanto pare, non sembra essere dispiaciuta affatto a tutti quegli esponenti del Pd (di rito rigorosamente non bersaniano, e i cui nomi vedremo tra un attimo) che in questi giorni hanno criticato in modo convinto gli eccessivi borbottii dei propri compagni di partito di fronte ai primi provvedimenti del governo Monti e che nelle prossime ore segnaleranno la loro lontananza da chi lunedì andrà a manifestare con i sindacati contro la manovra (come Cesare Damiano e come Stefano Fassina) utilizzando le stesse argomentazioni adottate due giorni fa dal centro studi di uno dei più autorevoli esponenti del partito di Monti, Enrico Letta. Queste: “E’ ogni giorno più chiaro che il sostegno all’esecutivo guidato da Mario Monti rappresenta il primo, fondamentale, banco di prova per il Pd quale forza responsabile di governo… Questo tipo di responsabilità implica serietà e coraggio e certamente non consente di mantenere troppo a lungo il piede in due staffe, magari protestando la mattina (in piazza) contro provvedimenti che il proprio partito vota la sera (in Parlamento)… Non esiste – se non nella mente di qualche nostalgico di altre stagioni – lo spazio per la creazione di un partito di lotta e di governo, e vorremmo lasciarci alle spalle, e definitivamente, il ricordo dei ministri e dei sottosegretari militanti che partecipavano alle manifestazioni organizzate contro quel governo Prodi di cui essi stessi facevano parte…”.

La novità di questo partito nel partito non è però legata soltanto alle idee alternative rispetto a quelle espresse dal segretario del Pd (e dalla sua squadra di economisti) ma è bensì direttamente collegata anche al peso che queste idee stanno acquisendo all’interno dello stesso Pd. Un peso che, da quando Monti è arrivato alla guida del governo, si è moltiplicato in modo esponenziale. E se si aggiunge che il sostegno (tanto discreto quanto efficace) al partito montiano arriva direttamente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si capisce che questo fenomeno nel mondo del centrosinistra non sembra essere destinato ad avere una vita breve.

“Credo sia evidente – racconta Enrico Morando, senatore del Pd che gode di ottime entrature al Quirinale – che nel Partito democratico ci siano due modi diversi di relazionarsi con il governo Monti. Da una parte abbiamo un pezzo ampio del Pd che crede sia importante non uscire trasformati dall’esperienza del governo (‘dobbiamo mantenere la linea politica decisa all’ultimo congresso’) e che insiste molto sull’idea che il Partito democratico non debba operare una rottura rispetto a quanto fatto negli ultimi mesi (anche dal punto di vista delle alleanze). Dall’altra parte invece c’è chi crede che il governo Monti per il Pd possa avere un senso solo se aiuta il nostro partito a fare qualche passo in avanti e se insomma gli dà una mano a diventare davvero quel genere di partito riformista che noi tutti – noi riformisti – abbiamo sempre sognato”.

Enrico Morando, così come Enrico Letta (un altro che nel Pd ha rapporti ottimi tanto con il Quirinale quanto con il nuovo presidente del Consiglio), rappresenta uno dei migliori profili da cui partire per spiegare chi sono gli azionisti che fanno parte del Partito democratico montiano. A prima vista, potrebbe essere sufficiente un giro di aggettivi (riformisti, europeisti, liberali, liberisti, miglioristi, andreattiani, bipolaristi, presidenzialisti e soprattutto molto napolitaniani) per inquadrare bene le origini della nuova creatura democratica; ma a guardar bene, dietro il partito di Monti non ci sono solo dei semplici e generici attributi politici ma si nascondono piuttosto una serie di veri e propri soggetti intenzionati a voler sfruttare l’occasione del governo Monti per riscrivere, in modo definitivo, la geografia del Partito democratico. “La verità – confessa un deputato vicino al vicesegretario del Pd Enrico Letta – è che con Monti a Palazzo Chigi ha riacquistato credibilità non solo l’Italia ma anche lo stesso Pd, e questo è un punto che ai vertici del nostro partito non può continuare a sfuggire”.

La presenza di Enrico Letta e dei deputati e senatori che gravitano attorno al mondo del vicesegretario (tra il think tank 360 gradi e la fondazione Vedrò) segnala che la creatura montiana sta prendendo forma fuori dai tradizionali confini della critica riformista veltronian-fioroniana (corrente Modem). E in termini pratici, o per meglio dire, in termini numerici, si può dire dunque che il fronte montiano del Pd, che si sta muovendo sulla scacchiera del centrosinistra in modo alternativo al cerchio magico del segretario, rappresenta ormai circa la metà del Partito democratico (i Modem sono il 35 per cento del Pd, i lettiani circa il 15 per cento). E considerando che all’interno del fronte bersaniano non mancano diversi obiettori di coscienza (vedi ad esempio anche alcuni franceschiniani) convinti che per il Pd non esista altra strada per sopravvivere nel futuro se non quella di ricalibrare il baricentro del partito sul profilo del governo Monti, è comprensibile che qualcuno si sia convinto che nel Pd ormai esiste una maggioranza diversa rispetto a quella uscita dall’ultimo congresso.

“In effetti – dice Alessandro Maran, vicecapogruppo del Pd alla Camera, corrente Modem – noi ‘montiani’ siamo convinti che l’esperienza del governo guidato dal professore sia utile al Partito democratico per sbianchettare la foto di Vasto e per evitare che alle prossime elezioni il Pd possa arrivare con delle caratteristiche simili a quelle che aveva nel 1994 la famosa armata guidata da Achille Occhetto. E’ evidente che il governo Monti ha cambiato, e sta cambiando, la geografia del nostro partito, e non prenderne atto, per i vertici del Pd, sarebbe un errore molto grave. E come si fa a prenderne atto? Semplice: convocando quanto prima un congresso per ridiscutere la linea del partito e certificare se il Pd vuole far tesoro del governo Monti oppure no”.

All’interno del partito montiano le posizioni dei veltroniani (posizioni perfettamente esplicitate in un convegno convocato a metà novembre a Orvieto dalla fondazione LibertaEguale, un momento in cui i Liberal del Pd hanno messo a punto la linea conciliante da adottare rispetto al nuovo esecutivo), non sono però le uniche che vale la pena di decifrare. Si capisce, certo: gli esponenti democratici più vicini all’ex segretario vivono l’esperienza del governo Monti come fosse la conferma che le idee giuste per salvare il paese sono più vicine alle proposte lingottiane rispetto a quelle bersaniane (e in questo senso, non è un caso che il giornale più vicino al segretario del Pd, l’Unità, due giorni fa abbia deciso di mettere le cose in chiaro, specificando che le idee del governo Monti sono comunque idee di destra e lasciando intendere che tutti coloro – vero Walter? Vero Matteo? – che nel Pd non esercitano con forza il proprio spirito critico nei confronti del governo sono di destra proprio come il professore). Ma le altre componenti che insieme con i veltroniani hanno scelto di foraggiare il sempre più robusto partito dei montiani, quando si specchiano nel governo bocconiano vedono riflesse delle immagini che in realtà sono diverse rispetto a quelle viste dagli amici veltroniani. I lettiani – in perfetta sintonia con Romano Prodi e con la migliore tradizione ulivista-andreattiana – credono anche loro che il governo Monti possa essere utile ad allontare il Pd dagli alleati meno riformisti del centrosinistra (Di Pietro, Vendola, la Fiom); ma allo stesso tempo credono che l’esperienza montiana possa essere utile per ricordare anche qual è il giusto approccio da adottare nei confronti di una delle istituzioni più importanti per il maggior partito del centrosinistra: l’Europa. “Il governo Monti – dice Marco Meloni, membro della segreteria del Pd, e uno dei più feroci critici insieme con Enrico Letta della scelta fatta dalla coppia Bersani-Fassina di condannare quest’estate la Bce per i consigli sulle riforme offerti nella famosa lettera inviata a luglio all’Italia –  potrà esserci utile per due aspetti. Il primo riguarda l’Europa: non è tecnocratica o antidemocratica, ma un’entità che si può democratizzare col dialogo tra i popoli e tra forze di diverso colore politico, come insegna la migliore tradizione europeista, che dobbiamo fare nostra. L’altro punto vale per l’Italia: fare i conti, dal governo, con ciò che è mancato nel decennio perduto, le riforme per la crescita e l’equità. Fare riforme strutturali con gli avversari politici – come la Germania degli anni scorsi – può aiutare la coesione nazionale e la nostra democrazia, che ha bisogno non di lotte populiste, ma di proposte di governo diverse”.

Dal punto di vista teorico, in un primo momento si era pensato che anche il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, potesse essere iscritto di diritto nel partito montiano. In effetti, molte delle ricette contenute all’interno dell’agenda economica del nuovo governo (flexsecurity, riforma delle pensioni, riforma della contrattazione aziendale) coincidono con alcune delle proposte formulate dal sindaco di Firenze durante la sua tre giorni della Leopolda di fine ottobre, e anche per questo l’insolito silenzio del sindaco in relazione alle dinamiche politiche nazionali (e montiane) era stato letto come una sorta di convinto silenzio assenso rispetto alle scelte del governo. Renzi, dunque, può essere anche inserito tra i Monti boys ma solo fino a un certo punto. Il sindaco di Firenze, infatti, sa che per il suo “Big bang” potrebbe essere un rischio farsi scippare lo scettro del riformismo ed è per questo che nelle prossime settimane il Rottamatore proverà a farsi interprete di una sorta di terza via del montismo: elogiando, sì, alcune riforme strutturali del nuovo governo ma contestando allo stesso tempo le pratiche non liberali portate avanti da Monti. E in particolare due su tutte: l’eccessivo aumento delle tasse e l’insufficiente taglio alla spesa pubblica. “Mi preoccupa soprattutto – ha scritto non a caso ieri Renzi nella sua newsletter settimanale – l’aumento strutturale delle tasse, non solo statali ma anche regionali senza un sostegno al reddito disponibile delle fasce medie che sono quelle realmente in sofferenza… e non mi pare che ci sia un intervento significativo di ristrutturazione della spesa”.

L’ultima parte di questo articolo però non può non concentrarsi su quella fetta del Pd che si è convertita al montismo con intenzioni diverse rispetto a quelle coltivate dai veltroniani, dai lettiani, dai prodiani e dai renziani. I soggetti in questione sono i circa 40 parlamentari ex Ppi del Partito democratico (tutti sempre di fede Modem) che di fronte all’esperienza del governo Monti intravedono due prospettive differenti. La prima: lavorare per restituire al Pd il suo orizzonte riformista. La seconda: preparare il terreno per dare vita a uno scenario che al momento sembra essere frutto di semplici ragionamenti fantapolitici ma che, a guardar bene, sembra essere meno remoto di quanto si possa immaginare. “Se il Partito democratico non accetterà la svolta che chiediamo – racconta un parlamentare del Pd di area popolare – la nostra idea è realizzare insieme con i nostri amici ex democristiani del Pdl un nuovo e robusto partito che al termine di questa legislatura potrebbe diventare il contenitore di tutte le forze riformiste del paese. Un partito che non sogniamo soltanto noi, e i nostri amici del Pdl, ma che sogna anche un ministro che una volta conclusa l’esperienza di questo governo non tornerà certo al suo vecchio lavoro ma rimarrà certamente all’interno del mondo della politica. Lui, naturalmente, è Corrado Passera”. Uno scenario – quello di un nuovo partito che raccolga i riformisti del Pdl e del Pd – che anche il veltroniano Alessandro Maran non si sente di smentire. “Se ne parla, è vero, sarebbe sciocco negarlo. Credo che non sia una possibilità concreta, ma nel centrosinistra se ne discute da qualche tempo, e seppure in piccola parte il rischio che rinunciare ad adottare un nuovo orizzonte riformista possa coincidere con una clamorosa scissione del Pd esiste, ed esiste davvero”.