La Stabilità renziana: populismo e propaganda fanno bene all’Italia (e al Pd)?
La legge di Stabilità è l’emblema di due tratti del renzismo al potere ormai chiari, e assai preoccupanti: il contrasto al populismo con una cura omeopatica, e l’alterazione della realtà oggettiva dei fatti, sostituita da una potente propaganda. Parto da alcuni esempi, riferiti a notizie delle ultime settimane.
Il primo riguarda l’occupazione: in tutto l’Occidente negli ultimi anni si è preoccupati della “ripresa senza lavoro”. Normale che questo rischio ci sia anche da noi. La scorsa settimana, il dato Istat sul calo della disoccupazione dello 0,2% viene accolto – sarebbe anche giusto – con grande giubilo. La realtà, rileva il centro studi ADAPT di Michele Tiraboschi, è che il numero degli occupati è in calo di 36mila unità e quello degli inattivi cresce di 53mila; “l’Italia è ferma a un tasso di occupazione del 56,5%, ormai inferiore di 3 punti a quello spagnolo e ultimo in Europa, escludendo nazioni colpite da profonda crisi economico-sociale”. Dunque il calo della disoccupazione deriva dall’aumento degli inattivi nella fascia di età 15-64 anni. Quanto alla “stabilità” delle nuove assunzioni, a settembre si sono persi 21mila posti a tempo indeterminato rispetto ai 4mila a termine. Su base annua, crescono dell’0,8% i contratti a tempo indeterminato e del 4,6% quelli a tempo determinato, che continuano ad essere di gran lunga la modalità preferenziale con la quale le imprese assumono. “Sono stati spesi 15 miliardi di euro (forse 20)” – afferma ADAPT – “per non incidere in alcun modo sulla vera priorità italiana, anche in termini di produttività, e cioè incrementare il numero di occupati”. La verità sta in un tweet di Fabrizio Forquet, vicedirettore de Il Sole 24 Ore:
Cresce il Pil ma aumenta il numero degli inattivi. Guai se si concretizza il rischio di una crescita senza lavoro #occupazione #lavoro
— fabrizio forquet (@FabrizioForquet) October 30, 2015
È più seria questa preoccupazione o la propaganda renziana?
Secondo esempio: la facilità di fare impresa in relazione alla complessità della regolamentazione. Secondo il report della Banca Mondiale Doing Business l’Italia è 45esima, mentre un anno fa era 56esima. Il governo e numerosi dirigenti del PD, con in testa la vicesegretaria nazionale, celebrano – sarebbe anche giusto – il trionfo. La scheda Paese riporta una verità molto diversa: poiché il metodo è cambiato, non guadagniamo posizioni ma ne perdiamo una (col nuovo metodo lo scorso anno saremmo stati 44esimi). L’unico indicatore nel quale miglioriamo (dalla posizione 124 alla 111) è “enforcing contracts”: i progressi nella giustizia civile dovuti al processo civile telematico e allo snellimento delle procedure delle cause di lavoro (grazie al Jobs Act). Non sarebbe stato serio, oltre che leggere il rapporto, tornare sul punto per dire “in effetti perdiamo solo una posizione, gli altri – nonostante il nostro impegno – corrono più velocemente di noi, ma registriamo con soddisfazione che il Jobs Act ha migliorato l’enforcement dei nostri contratti”?
Terzo esempio, il Mezzogiorno (e le Isole). Alla direzione nazionale del 7 agosto Matteo Renzi annuncia un risolutivo Masterplan. Per non sbagliare fissa anche la data, riducendo il margine di incertezza a un solo giorno: il 15 o il 16 settembre si avrà il documento finale, “in tempo per la legge di stabilità”. Solo ora, con quasi due mesi di ritardo, il governo diffonde delle linee guida, chiamando “Masterplan” la programmazione pluriennale dei Fondi strutturali Ue. A prima vista niente di nuovo, né di straordinario. Nella legge di Stabilità non c’è traccia di un intervento strutturale che inverta l’attuale prospettiva, che condurrebbe a raggiungere i livelli pre-crisi in 130 anni, come ha osservato Gianfranco Viesti: nulla per servizi essenziali in grande sofferenza (sanità, università), neppure la proroga degli sgravi contributivi della stessa intensità per il solo Mezzogiorno (ricordiamo che nel 2015 sono stati finanziati in tutta Italia con risorse destinate al Sud). Non sarebbe stato più serio avere una strategia di intervento prima di annunciare fantomatici e miracolistici piani?
Quarto esempio, la politica europea. La propaganda dice che abbiamo cambiato noi – “il più forte partito socialista d’Europa” – la politica economica e quella dell’immigrazione. La cronaca ci descrive un governo che continua a considerare i “burocrati di Bruxelles” come un nemico, a forzare gli accordi raggiunti in sede comunitaria, ad assecondare il rafforzamento dei meccanismi intergovernativi, che premiano solo i paesi più grandi e importanti. Dei quali non facciamo parte: le decisioni fondamentali sono guidate dalla cancelliera Merkel e dal presidente Hollande, e persino nel recente vertice informale sull’immigrazione l’Italia non è stata neppure invitata. Le cronache descrivono un Renzi adirato con la ministra degli Esteri Ue, Federica Mogherini, la quale evidentemente nulla può rispetto all’inconsistenza della nostra politica europea. Non sarebbe più serio dire “l’Europa siamo noi, siamo noi – ben più di tedeschi e francesi – ad avere bisogno di più integrazione, e per ottenerla vogliamo rispettare gli impegni, rafforzare la Commissione e la logica comunitaria”, che cavalcare una pulsione populista e antieuropea che purtroppo prende piede anche in Italia?
L’ultimo esempio riguarda le tasse e, in generale, la legge di Stabilità. Qui la retorica raggiunge livelli stellari, e con essa la distanza tra la narrazione favolistica renziana e la verità dei fatti. La manovra – ne ho scritto qualche settimana fa – sfora dell’1% il deficit pattuito con Bruxelles e rimanda a data da destinarsi il pareggio di bilancio; cancella la spending review; riduce gli investimenti (scesi all’1,8% del PIL) e riduce di oltre 4,5 miliardi le risorse per la salute rispetto a quanto stabilito (dal governo Renzi) nel 2014, affidando così alle Regioni, mentre è spaventoso il numero degli italiani costretti a rinunciare alle prestazioni e l’universalità del sistema è sempre più a rischio, l’ingrata alternativa tra riduzione di servizi essenziali e l’aumento delle tasse per finanziarli; punta tutto sull’abolizione della tassa sulla prima casa “per tutti” – i più ricchi ringraziano – e, triplicando la soglia contante, strizza l’occhio all’evasione, al riciclaggio e all’illegalità; non riduce le tasse sul lavoro, non prevede un euro in più sul diritto allo studio. Ma col tocco magico del premier la manovra “riduce il debito”, è “di sinistra”, aumenta la spesa sanitaria.
Non ha persuaso Bce, Commissione europea, Bankitalia, Corte dei Conti, gli uffici di bilancio di Camera e Senato, Regioni, moltissimi economisti, il presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone e i magistrati in prima linea nel contrasto all’illegalità. Mario Draghi invita a indirizzare i risparmi sugli interessi agli “investimenti pubblici”, perché, se utilizzati per la spesa corrente, “aumenta il rischio che il debito torni a essere insostenibile”; la legge di Stabilità fa esattamente l’opposto. Ma che importa delle critiche, il premier ha annunciato che “le prossime elezioni si vinceranno nelle periferie”! E poi l’evasione si combatte con l’innovazione, “con un clic”: peccato che gli investimenti per la digitalizzazione della PA siano dimezzati. Infine, udite udite, è la più grande riduzione di tasse mai vista (“meno tasse per tutti”, questa si era già sentita!): come spiega Francesco Daveri su lavoce.info, in realtà si sono solo spostate di un anno le clausole di salvaguardia, e la riduzione si limita a 3 miliardi, un modesto 0,2%. Diciamolo chiaramente: sarebbe stato più serio non adottare una manovra così rischiosa e priva di prospettiva, tutta rivolta al consenso effimero. E in ogni caso l’azzardo di nuovi debiti – che io avrei evitato comunque – sarebbe tollerabile solo se finalizzato alla competitività, con la riduzione del costo del lavoro e gli investimenti.
Si potrebbe continuare, ma questi esempi sono più che sufficienti per porre una domanda di fondo: siamo sicuri che questo metodo “populismo & propaganda” faccia bene all’Italia (e, en passant, al Pd)? Siamo sicuri che un partito che vuole (ancora?) fondare il suo successo sull’affidabilità e la credibilità, possa spingere così all’estremo la macchina della propaganda da rendere necessario che ogni affermazione dei suoi dirigenti sia sottoposta a un rigoroso fact checking (con esiti, ahimè, spesso infelici)? Siamo sicuri che la via per contrastare il M5s (con le sue balle) e Salvini (col suo populismo) siano il populismo e la propaganda renziani? Io credo proprio di no. E credo sia giusto denunciare questa deriva e lavorare per fare del Partito Democratico un partito serio e affidabile, che ha fiducia negli italiani e di cui gli italiani possano fidarsi, perché considera l’onestà intellettuale, le regole e la legalità i valori principali sui quali fondare le prospettive di crescita duratura del Paese.
Da L’HUFFINGTON POST: http://www.huffingtonpost.it/marco-meloni/la-stabilita-renziana_b_8474936.html