Le regole e le risorse per l’Università: le differenze tra governo e Pd

Il problema dell’università sono i costi, in particolare quelli del personale. Questo, almeno, a sentire una voce autorevole come quella di Andrea Ichino, che sul Sole-24 ore dell’11 dicembre sostiene che paesi “più solidi del nostro”, come il Regno Unito, riescono ad affrontare i tagli all’istruzione e alla ricerca grazie alla flessibilità dei costi del personale e alla “licenziabilità dei docenti”, mentre sia il ddl Gelmini, sia le proposte dell’opposizione non prevedrebbero nulla in materia.

L’assunto da cui parte Ichino è, evidentemente, che sia giusto ridurre la spesa pubblica per l’università. Ma l’università italiana costa troppo? La risposta è no. Nel 2008 investivamo lo 0,8% del PIL, contro una media UE dell’1,3% (ultimo posto a livello UE/OCSE), con una spesa per studente pari a 5.447 $ (media OCSE 8.970, UK 9.023). E proprio nel 2008 – quando della crisi si scorgevano solo le avvisaglie, puntualmente negate dal “governo dell’ottimismo” – l’esecutivo decise di ridurre gli investimenti del 20% (quasi 2 miliardi) in quattro anni, sull’altare dell’eliminazione dell’ICI per i più abbienti e dell’ “italianità” di Alitalia (costo: 6 miliardi). Gli altri grandi paesi, al contrario, investivano: in Germania + 800 mln subito e un programma di investimenti di 7,7 mld; in Francia 5 mld per i poli d’eccellenza, più 19 mld nel maxi-prestito; in Gran Bretagna + 4% all’anno per ricerca e didattica, fino alla stretta di Cameron. Riassumendo, investiamo pochissimo, e il governo Berlusconi, caso unico tra i grandi paesi europei, ha scelto di disinvestire ulteriormente.

Quanto alla flessibilità del “monte-salari”, in effetti il governo ha ridotto i costi, ma lo ha fatto coi suoi inconfondibili tagli lineari, come il blocco una tantum degli scatti stipendiali. Una misura che colpiva soprattutto i più giovani e che è stata corretta solo dopo mesi di battaglia parlamentare. Ma veniamo al Pd. Noi pensiamo che la flessibilità nei compensi, che pure già esiste, debba essere incrementata. I temi centrali sono la qualità del reclutamento e il merito nelle carriere. Aspetti sui quali il governo non prevede nulla, mentre il Pd ha proposto percorsi di accesso alla carriera rapidi e meritocratici, e un nuovo ruolo del professore con un incremento della parte variabile dei compensi man mano che la carriera progredisce. In proporzione, più compensi (e fondi per la ricerca) certi ai giovani, più flessibilità per i meno giovani. Quanto ai “cattedratici improduttivi”, è necessario anzitutto applicare severamente le norme esistenti; il Pd ha proposto che si valuti la “produttività scientifica” per consentire di svolgere attività didattica e di ricerca dopo i 65 anni. Ma, sia chiaro, il riassetto del corpo docente previsto nel ddl – con una drastica e rapidissima riduzione dei professori di ruolo – è disastroso e immotivato: abbiamo meno docenti per studente rispetto alle medie internazionali, anche considerando solo quelli regolari.

La soluzione risiederebbe, afferma Ichino, nel binomio “autonomia-valutazione”, che non viene adeguatamente considerato, ancora, né dal governo né dall’opposizione. E qui davvero non ci siamo: il Pd ha una posizione opposta a quella del governo, visto che una delle obiezioni più radicali che avanziamo al ddl Gelmini riguarda la ricentralizzazione di ogni scelta nella burocrazia ministeriale. Al contrario, noi proponiamo poche regole sulla governance degli atenei e risorse ripartite realmente in base a valutazione di ricerca e didattica e livello formativo degli studenti. Per il resto libertà di organizzazione. Regole certe e valutazione sono l’unica chiave per incentivare i comportamenti virtuosi, portare gli atenei a una maggiore efficienza, spingere gli studenti a scegliere gli atenei migliori.

È giusto invece sostenere – come fa Ichino – che serve un’università selettiva e di qualità. Ma perché gli studenti che lo meritano abbiano prospettive, il diritto allo studio deve essere una cosa seria. Da noi lo è sempre meno: spendiamo 227 $ per studente (media OCSE 478, Regno Unito 1.266). Nel 2008 il 20% degli aventi diritto non ha ottenuto la borsa per carenza di fondi, il 50% degli aventi diritto non ha avuto il posto letto. E ora dal 2009 al 2012 le risorse statali passano da 246 a 26 milioni l’anno (- 90%).

Una situazione drammatica, già registrata dagli studenti: i costi eccessivi portano a una forte diminuzione delle immatricolazioni, in controtendenza rispetto all’Europa (in totale – 14% in sei anni, e – 8% dei diplomati che non proseguono gli studi). Così in Italia l’università sarà sempre più un fattore di immobilità sociale (da noi tra i laureati solo il 10% sono figli di non diplomati, in Gran Bretagna il 40%), con una enorme perdita di talenti. Il nostro problema però non è ridurre le ammissioni, ma raddoppiare i laureati, che sono meno del 20%, contro una media UE del 32% e un obiettivo per il 2020 del 40%. Occorre dunque ridurre la grande anomalia degli abbandoni e dei ritardi negli studi, agendo sia sul versante dei sostegni e delle tasse, sia con meccanismi di orientamento e selezione all’ammissione e alla permanenza. Anche sul diritto allo studio, il merito, l’orientamento e gli incentivi alla conclusione tempestiva degli studi le proposte del Pd sono chiare, ma sono rimaste inascoltate da una maggioranza che per mesi si è arroccata arrogantemente nella difesa di un ddl sbagliato, perché poco coraggioso, in larga parte inutile e nella sua impostazione complessiva dannoso, e che oggi è appesa agli starnuti di uno Scilipoti qualunque.

Maria Chiara Carrozza, presidente Forum Università, ricerca e saperi Pd
Marco Meloni, responsabile Università e ricerca segreteria nazionale Pd