L’Italia delle Pmi fa pochi passi avanti sul mercato globale

L’Italia, a differenza della Germania, è riuscita a sfruttare solo in parte le enormi potenzialità dei mercati emergenti, mentre ha risentito di più della concorrenza proveniente dalle imprese di quegli stessi Paesi. Insomma, l’internazionalizzazione presenta un “saldo” che avrebbe dovuto essere più positivo di così per il nostro Paese.
Lo dice il rapporto Cer (Centro Europa ricerche), secondo cui l’Italia, al di là della crisi globale, non è riuscita ad assicurare una presenza importante sui mercati più lontani.
«Negli ultimi anni – dice Paolo Guerrieri, ordinario di Economia all’Università di Roma “La Sapienza” e docente al Collegio d’Europa di Bruges, che ha curato il rapporto – si è certamente verificato un deciso rafforzamento della presenza di imprese italiane su questi mercati, soprattutto di quelle di media dimensione e non solo attraverso le esportazioni, ma anche con attività distributive e produttive realizzate attraverso investimenti diretti o accordi di collaborazione con imprese straniere. Il problema, però, è che il gruppo di imprese di successo, per quanto in crescita, non è abbastanza numeroso per compensare le performance negative di quel nutritissimo gruppo di piccole e piccolissime aziende troppo fragili e sottocapitalizzate per affrontare positivamente la sfida del mercato globale».
Il rapporto Cer misura anche gli indici di specializzazione commerciale dei principali settori dell’industria manifatturiera e rileva come nell’ultimo decennio il settore in cui la specializzazione italiana si sia rafforzata nettamente è quello dei macchinari e delle attrezzature, si è ridotta la debolezza relativa del comparto alimentare ma si è accentuato lo svantaggio comparato della nostra industria nell’elettronica, nelle tlc e nelle macchine elettriche.

La Germania ha quote di mercato che sono passate dal 9% (nel ’99) al 15,1% (nel 2011) nei primi 6 nuovi mercati, i cosiddetti E6, cioè Brasile, Cina, Corea, India, Messico e Russia. L’Italia invece è passata da 3,2 a 3,6, guadagnando qualcosa in Corea, India e Messico ma perdendo in Cina, Brasile e Russia. In Asia oggi la Germania è a quota 7,5, mentre l’Italia è ferma a 2,9 (sostanzialmente immutata dal ’99). Nell’Area Nordafrica e Medio Oriente, mercati più vicini a noi e dunque più accessibili, il gap è inferiore: la quota dell’Italia si attesta al 12,5% nel 2011 (era al 10,6 nel ’99) e la Germania è al 15,1. In America Latina la Germania mette a segno 11,4 mentre l’Italia si accontenta del 4,8.

Anche un altro indicatore è significativo: l’andamento dei saldi commerciali dei maggiori Paesi sempre nei confronti delle aree emergenti: l’Italia fa registrare saldi positivi nei confronti soprattutto dei Paesi dell’Europa centrale e orientale. Disavanzi crescenti invece hanno caratterizzato gli scambi commerciali con i Paesi del Nordafrica e Medio Oriente e della Csi (ex Urss), soprattutto a causa del peso delle importazioni di energia, e anche nel gruppo E6 a causa delle importazioni di beni manufatti provenienti dall’Asia del Pacifico, soprattutto dalla Cina, che non è stato compensato dall’avanzo, che pure è cresciuto, registrato negli scambi di beni strumentali e di investimento. Anche in questo caso la Germania mostra andamenti più favorevoli. «È con la Germania che dobbiamo confrontarci – spiega Guerrieri -. La Francia è molto più forte di noi nel campo dei servizi, ma non ha il nostro tessuto industriale. Che invece la Germania ha, simile al nostro nel tipo di produzione. Ma noi scontiamo la dimensione insufficiente delle imprese. Bisogna far crescere le Pmi, e prima ancora organizzarle in modo diverso, attraverso filiere o reti. Lo si dice da tempo, ma ormai è un passaggio ineludibile, altrimenti perderemo la partita».

Anna Del Freo – Il Sole24 Ore