Non è tecnocrazia ma un nuovo impegno per salvare il Paese

Poche ore di gioia e sollievo, e siamo già al momento della responsabilità. Non abbiamo più scuse: siamo chiamati all’arduo compito di ricostruire il Paese dalle macerie del ventennio berlusconiano, e, al contempo, di salvarlo dalla bancarotta recuperando crescita e reputazione. Partendo dalla situazione ben riassunta un mese fa proprio da Mario Monti: “L’Italia non è mai stata così decisiva sull’avvenire dell’Europa e allo stesso tempo così estranea alle sue decisioni”.

Davanti a una crisi politica come l’attuale vi sono due vie d’uscita: le elezioni o la costituzione di una nuova maggioranza parlamentare. Nessuna delle due è “migliore” o “più democratica”. Dipende dal contesto. La strada individuata dal presidente Napolitano ha riportato il sereno. Il mondo esprime fiducia, gli italiani intravedono finalmente una speranza. Ma in molti, e non solo tra i complottisti che pure non mancano nella destra come nella sinistra estrema, si chiedono: la tecnocrazia ha sconfitto la politica? Il governo di una personalità scelta per la sua competenza mette in crisi la democrazia? Le pressioni internazionali che hanno favorito questo esito minano la nostra sovranità?

Dobbiamo rispondere con nettezza: specie in un momento come questo, secondo la lettera e lo spirito della Costituzione, il capo dello Stato può ben individuare per la guida del governo una personalità di particolare prestigio, e il Parlamento sostenere questa scelta, ritrovando una sua centralità dopo l’abuso di decreti, fiducie e trasformismi degli ultimi anni. Si può riavviare un circolo virtuoso, uscire dalla spirale del fallimento e aiutare la stessa democrazia sostanziale, come testimoniano il vasto consenso dei cittadini di ogni colore politico e delle forze economiche e sociali – che sarebbe stato auspicabile vedere più unite, in un momento così drammatico – al nascente governo Monti.

Eppure, riconoscere la piena legittimità democratica del governo, che speriamo ottenga una fiducia ampia, non basta. Dobbiamo, come detto, cogliere questa opportunità per salvare il Paese. Un compito che dovrebbe richiamare alla responsabilità tutte le forze politiche – a partire dai principali partiti di ciascuna coalizione – per dare a questo governo “di competenti” i connotati di un progetto politico di coesione e ricostruzione nazionale. Un disegno che il PD ha individuato per primo e che ora – sgombrato il campo dal governo Berlusconi – può mettere a disposizione del Parlamento e del Paese. Proprio perché usciamo da una fase difficile, è necessario che gli avversari di questi anni lavorino fianco a fianco, non solo per affrontare la drammatica crisi economica, ma per ridefinire il “patto che ci lega” e ricostruire la democrazia: l’assetto delle istituzioni, una nuova legge elettorale, un terreno condiviso di riforme sociali improntate all’equità, alla legalità, al superamento di privilegi e rendite di posizione.

L’operato del nuovo esecutivo potrà disegnare il futuro del centrosinistra e del centrodestra, riportando alla normalità la dialettica tra proposte alternative di governo, in un dibattito non più incentrato sui personalismi, ma finalmente sulle scelte di merito per il futuro. Noi democratici dovremmo scommettere sulla capacità di questo governo di tirar fuori il Paese dalle secche, sostenendone l’azione riformatrice senza esitazioni. Se lo faremo, diventeremo il partito della rinascita italiana e potremo portare dalla nostra parte il consenso dei tanti cittadini che desiderano cambiare profondamente l’Italia, renderla più equa, competitiva, moderna.

A questo fine, il PD deve fare due cose. Primo: essere capace di fornire contenuti validi per animare una stagione di riforme strutturali coraggiose e lungimiranti (welfare e previdenza “dalla parte dei giovani e del futuro”; mercato del lavoro che dia una base omogenea di diritti e superi il dualismo tra garantiti e precari; istruzione fino ai più alti gradi per i “capaci e meritevoli”, obiettivo dal quale ci allontaniamo sempre più, nel disinteresse generale). L’unica bussola è coniugare crescita ed equità: in questo senso le parole di Monti, all’accettazione dell’incarico, sono un ottimo auspicio. Secondo: esprimere un’autentica unità di intenti, aggiornando le posizioni su questi temi fondamentali in modo da riconciliare attorno ad esse i differenti orientamenti finora emersi, e collegarle con il sentire diffuso del Paese, delle rappresentanze economiche e sociali e soprattutto dei giovani italiani. Per fondare la ricostruzione su una vera economia sociale di mercato.

La politica deve imparare la lezione: poiché nella realtà attuale l’incompetenza al governo ingenera effetti globali e catastrofici, occorre far pace col concetto di competenza e ritrovare dignità e credibilità. La “virtù dei migliori” deve essere un’ambizione costante nei soggetti politici, i quali altrimenti vivacchiano nella pretesa autonomia morendo di incapacità. E uscire dal berlusconismo significa superare gli “unti dal Signore”, non la capacità di selezionare democraticamente leader forti e autorevoli. Diciamolo con chiarezza: personalità come Mario Draghi e Mario Monti non sono “tecnocrati”, come afferma con tono vagamente sprezzante chi vorrebbe rivendicare ai “politici di professione” l’esclusività nell’esercizio di funzioni pubbliche, ma civil servant che danno lustro all’Italia e all’Europa. Dignità e sobrietà: l’immagine dello Stato è quella di un senatore che aspetta la moglie alla stazione, non quella delle Maserati dei La Russa né dei vacui orpelli e degli insostenibili privilegi del potere, che devono essere immediatamente e radicalmente rimossi.

Infine, la sovranità italiana non è in pericolo. Essa si colloca nel progetto di una sovranità condivisa in ambito europeo, entro il quale persino il protagonismo dei capi di governo è comprensibile, perché segnala l’urgenza di un’unione politica fondata su istituzioni europee democratiche. Non deve più essere una “sovranità autolimitata”, in cui la politica si diminuisce da sola. Proprio il progetto collettivo, e la necessità di stare insieme per il bene dell’Italia, devono informare la prospettiva di lungo termine del governo del Paese. La veduta lunga del mondo cattolico e associativo ha insistito su questa necessità di coesione, costantemente richiamata dal Presidente Napolitano. Una visione che vale anche per noi: come ha scritto Alfredo Reichlin, lo “stare insieme” del PD è importante oggi, in un’Italia che si è fatta la guerra da sola per troppo tempo. “Fare l’Italia” è stato il compito storico dei grandi partiti politici, nell’orizzonte del “miracolo” che oggi guardiamo con ammirazione e nel solco della Costituzione a cui ci ispiriamo anche ora per restituire dignità e prosperità al nostro Paese.