Perché dividerci sulle riforme?
Ancora una domenica di querelle e polemiche nel Partito Democratico. Qual è, stavolta, la questione? Ieri Walter Veltroni rilascia un’intervista a Repubblica che mi pare piuttosto condivisibile: coglie lo spirito riformista del governo, invita a non avere tabù sulla riforma del mercato del lavoro e a non guardare alle ideologie del secolo scorso per fondare la politica del Pd e del centrosinistra. Poche ore dopo, il finimondo. A giudizio di Stefano Fassina, chiarito che gli interventi del governo Monti – votati da tutti i parlamentari del PD – sono “iniqui” e “brutali”, sostenere che il suo profilo riformista è una sfida che dobbiamo cogliere positivamente significa essere “uguali al PDL”; affermare che riformare il welfare e il mercato del lavoro è necessario e che il PD deve superare “totem e tabù” significa essere del tutto “fuori linea”. Nulla di nuovo sotto cielo – sembra di essere tornati indietro di un anno – ma, ancora una volta, un gigantesco autogol.
Anzitutto, a proposito di mercato del lavoro, finora abbiamo sostenuto che è giusto attendere il confronto tra governo e parti sociali prima di esprimere un giudizio; e che, dato che in quel confronto si parlerà di tutto (dunque “senza tabù”, mi verrebbe da pensare), è giusto sottolineare che, per il PD, l’articolo 18 non è il tema centrale (anzi, è da affrontare “per ultimo” prevedendo che sia possibile una “manutenzione della gestione di questo articolo”, per dirla con Bersani). E da anni affermiamo la necessità di riformare gli ammortizzatori sociali – cosa che il governo Berlusconi si è sempre rifiutato di fare – per passare a un sistema di protezioni universalistiche, rivolto a tutte le persone e a tutti i lavoratori.
Più in generale, non possiamo affrontare la questione con gli occhiali del 2010 o anche solo di qualche mese fa. Ora sosteniamo un governo dal forte profilo riformista, e abbiamo votato la fiducia a un programma che sul punto specifico recita: “Mercato del lavoro e flex-security. Con il consenso delle parti sociali dovranno essere riformate le istituzioni del mercato del lavoro per allontanarci da un mercato duale dove alcuni sono fin troppo tutelati, mentre altri sono totalmente privi di tutele e assicurazioni in caso di disoccupazione. Le riforme in questo campo dovranno avere il duplice scopo di rendere più equo il nostro sistema di tutela del lavoro e di sicurezza sociale, e anche di facilitare la crescita della produttività, tenendo conto dell’eterogeneità che contraddistingue l’economia italiana. In ogni caso, il nuovo ordinamento che andrà disegnato verrà applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non verranno modificati i rapporti di lavoro regolari e stabili in essere.”
L’Italia vive una stagione di rilancio impensabile appena poche settimane fa: alla ritrovata credibilità internazionale si accompagna il fatto che le riforme già adottate abbiano ristabilito una fiducia nei mercati, con già visibili effetti positivi sul costo di rifinanziamento del nostro debito pubblico. Ora siamo dinanzi a una riforma, quella del welfare e del mercato del lavoro, decisiva per la crescita e per l’equità. Per dare una base di diritti comuni a una generazione che spesso non ne ha nessuno; per ridefinire il “ciclo della vita”, come ha giustamente affermato qualche tempo fa il ministro Fornero, ridisegnando un quadro di diritti e di opportunità che consentano alle persone di organizzare a tempo debito la propria esistenza con maggiore libertà e responsabilità, di scegliere che futuro costruire a livello personale, familiare, professionale senza l’unico condizionamento della condizione sociale o territoriale.
La crisi italiana precede la crisi globale e siamo reduci da un “decennio perduto”. Siamo il paese più iniquo, bloccato e “anziano” d’Europa. Di queste cose dobbiamo preoccuparci, sul merito di queste questioni si gioca il rilancio dell’Italia. E se su questi temi – che, fra l’altro, sono assolutamente di centrosinistra, perché danno diritti, danno equità, danno libertà – il governo riuscirà ad avanzare proposte che trovino un ampio consenso parlamentare, potremmo dire di aver risolto “pacificamente” questioni fondamentali per il futuro dell’intera collettività nazionale, che negli ultimi decenni sono state oggetto di scontri anche drammatici e che dunque è auspicabile trovino intese amplissime per essere finalmente sottratte allo scontro politico. Forse chi ha costruito il proprio posizionamento politico su un’ideologia old labour, fatta essenzialmente di evocazioni astratte e di immobilismo sostanziale (e dunque, al concreto, “antiriformista”), potrebbe perdere, sul breve periodo, qualche argomento, ma francamente mi pare una questione di importanza minima. I benefici per il Paese, d’altro canto, sarebbero enormi e duraturi.
Eccoci, quindi, al punto centrale: il PD può sostenere queste riforme? A parte che tra sostenerle, come sarebbe giusto, e subirle, come vorrebbe qualcuno, c’è comunque una grande differenza, ciò che sarebbe del tutto insensato è teorizzare l’impossibilità che un governo sostenuto da un’ampia maggioranza parlamentare possa realizzare riforme condivisibili dal PD: che senso avrebbe, infatti, sostenerlo? Conseguentemente, non ha alcun senso affermare che una riforma del mercato del lavoro e del welfare votata dal Terzo polo e dal PDL non possa essere sostenuta dal PD, perché ciò significherebbe (oltre che essere smentiti dai fatti) tradire il programma del governo al quale i nostri parlamentari hanno dato convintamente la fiducia.
Su questi temi si gioca la credibilità del PD: i mesi a venire ridisegneranno del tutto lo scenario politico, e verremo giudicati sulla nostra capacità di essere pragmatici, coraggiosi, innovatori. Fra l’altro è giusto considerare che tutti gli indicatori demoscopici disponibili dimostrano che gli elettori democratici esprimono un fortissimo sostegno al governo Monti, e più nello specifico, allo stesso ministro Fornero, tra i protagonisti dell’azione governativa sui temi qui in discussione. Credo che sia dovere primario di noi dirigenti, piuttosto che richiamarci vicendevolmente al rispetto di un centralismo democratico fuori dalla storia, tenere massimamente conto di queste opinioni, che spesso arrivano con una certa “distanza” agli organismi ai quali è demandato il compito di elaborare le posizioni del partito.
Ci sono tutte le condizioni perché il sostegno al governo presieduto da Mario Monti sia la prima tappa della realizzazione dell’impianto riformista sul quale si fonda il DNA del Partito Democratico, che conduca a una decisa inversione di rotta potenziando le regole che governano la nostra economia di mercato, l’equità sociale e generazionale, promuovendo la crescita e dunque favorendo la creazione di occupazione di qualità: se saremo capaci di comprendere rapidamente che questa è un’opportunità decisiva per il Paese, saremo il “partito dell’Italia” e ci candideremo credibilmente a guidare il secondo tempo di questo rilancio.