Premierato: il mio intervento in Aula
Ecco il mio intervento durante la discussione in Senato sulle modifiche agli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica
Signor Presidente,
Signora Ministra,
Onorevoli Senatrici e Senatori,
nell’intervenire oggi, non vi nascondo che avverto appieno la discrasia tra la solennità della materia oggetto della nostra discussione – vale a dire le modifiche della Costituzione sul tema cardine del funzionamento della democrazia repubblicana – e l’inadeguatezza del testo su cui siamo chiamati a legiferare.
Le molteplici ragioni di questa inadeguatezza sono state illustrate con argomenti convincenti da molti colleghi, oltreché dai più autorevoli costituzionalisti intervenuti negli ultimi mesi, nelle audizioni in Commissione e nel dibattito pubblico. Mi soffermo, dunque, solo su alcuni aspetti che ritengo descrivano l’irragionevolezza della proposta dell’esecutivo.
In primo luogo, il metodo. Si è lungamente e opportunamente denunciata una deriva mercantile nella condotta del governo. Il testo che oggi prendiamo in esame, in questa versione aggiornata, ancora più confusa e improvvisata delle precedenti, altro non è, infatti, che il frutto di un mercanteggiamento tra le priorità del principale partito della maggioranza, e la bandiera della Lega, quell’autonomia differenziata che porta con sé, semplicemente, la disgregazione dell’unità nazionale.
Da una parte, l’accentramento dei poteri proprio di una cultura politica impregnata del decisionismo dell’uomo solo al comando e intrinsecamente allergica al parlamentarismo; dall’altra, la scomposizione preordinata della pur perfettibile governance multilivello su cui è imperniata la nostra architettura istituzionale.
Il tutto a meno di un mese da uno degli appuntamenti democratici più delicati dell’ultimo decennio. La Costituzione viene così portata strumentalmente in campagna elettorale, arena di competizione interna tra i partiti del centrodestra. Opporsi a questo disegno è un tributo ai valori su cui è nata la nostra Repubblica, di cui fra pochi giorni, il 2 giugno, celebreremo il 78° anniversario.
Nel merito, la proposta è un inganno nei confronti dei cittadini. Il messaggio che viene trasmesso al Paese è, infatti, generico e fuorviante. L’elezione diretta del presidente del Consiglio non determina necessariamente un rafforzamento del principio democratico, né tantomeno costituisce di per sé un elemento di stabilizzazione del sistema. Al contrario, in contesti politici frammentati e polarizzati come quello italiano, il premierato congegnato dal governo finisce paradossalmente con il configurarsi come un motore di destabilizzazione e di impoverimento delle istituzioni.
Dunque, oltre alla più classica delle eterogenesi dei fini, ciò che ne deriva è una profonda contraddittorietà rispetto agli obiettivi dichiarati. L’elezione diretta del capo del governo, infatti, favorisce stabilità, e dunque governabilità, solo nelle società politicamente pacificate, con sistemi solidamente bipolari o addirittura bipartitici, come accade per esempio nel Regno Unito, dove l’elemento di equilibrio e razionalizzazione è rappresentato dalla presenza di partiti forti che conservano nella sostanza l’affidamento dell’elettorato. Al contrario, in scenari politici conflittuali quale è quello italiano, dove anche all’interno delle coalizioni di maggioranza e opposizione non c’è pieno allineamento politico e ideologico, l’elezione diretta non può che rivelarsi divisiva, tutt’altro che pacificatrice. Oltre a questo, la previsione della possibilità della sostituzione del presidente del consiglio eletto determina una potenziale conflittualità permanente nell’ambito della maggioranza. Altro che stabilità!
Voi, governo e maggioranza, fate confusione tra i concetti. Democrazia ed elezione diretta non sono la stessa cosa; l’elezione dei soggetti titolari del potere pubblico è solo uno degli elementi caratterizzanti la democrazia e non esaurisce certo la categoria complessa di un sistema democratico che si fonda sull’equilibrio, su pesi e contrappesi. Tutto ciò che questa riforma azzera. E’ infatti evidente che l’effetto trascinamento per cui dall’elezione diretta del presidente del Consiglio – senza neppure la previsione di una soglia che assicuri perlomeno che la scelta sia affidata alla maggioranza degli elettori – si determina l’elezione della maggioranza parlamentare, produce l’esito di scardinare l’equilibrio dei poteri e di alterare la funzione delle istituzioni di garanzia. In altri termini, da una elezione del premier, che potrebbe essere determinata anche da una minoranza degli elettori, il trascinamento produrrebbe potenzialmente l’elezione della maggioranza parlamentare, del presidente della Repubblica, della maggioranza dei componenti della Corte Costituzionale e della rappresentanza parlamentare negli organi di autogoverno delle magistrature.
Vi rendete conto, governo e colleghi della maggioranza, che si tratta di un effetto drammatico? Se pensate davvero di essere i destinatari degli effetti di questa riforma, vi ricordo che mai negli ultimi 30 anni chi ha realizzato riforme elettorali o tentativi di riforme costituzionali ne ha potuto trarre beneficio, perché ha perso le successive elezioni, o i referendum costituzionali. Invece voi state riproducendo l’errore per cui pensate che questo obbrobrio che chiamate premierato si applicherebbe alla vostra maggioranza e alla vostra presidente del Consiglio. Questa è la verità.
La seconda grande incoerenza – rispetto sia agli iniziali propositi del governo, sia alle rassicurazioni fornite successivamente, anche in quest’Aula, dalla presidente del Consiglio – investe la figura del Presidente della Repubblica.
Formalmente il disegno di legge non interviene a disciplinare le prerogative del capo dello Stato. Nella sostanza, tuttavia, il premierato così disegnato finirebbe per depauperarne le funzioni e svilire quel ruolo di mediazione e garanzia esercitato in particolare in frangenti di impasse politica e istituzionale e ormai consolidato nella prassi e nelle convenzioni costituzionali.
Riassumendo, impoverimento delle prerogative e della centralità del Parlamento e contestuale esautoramento della figura del presidente della Repubblica. Il tutto ufficialmente nel nome di un modello di democrazia decidente che, se passasse questa riforma, porterebbe a un esito esattamente inverso: meno democrazia, con rappresentanza parlamentare fortemente decurtata; e minore carica “decidente”, con un sistema fisiologicamente incline al conflitto e alla parcellizzazione delle influenze lasciato in balia del solo potere esecutivo e della sua, per natura necessariamente oscillante, forza nel Paese e presso la pubblica opinione.
Sullo sfondo una tendenza alla frammentazione che ormai investe la gran parte dei Paesi dell’Occidente. Non è un caso, che alla moltiplicazione delle sollecitazioni dal basso e all’incremento dell’indice di conflittualità sociale e politica, anche le democrazie di tipo presidenziale di più antica tradizione, come gli Stati Uniti e la Francia, faticano ad adattarsi, tanto da avallare se non ricercare una, per molti versi inaspettata, riconquista della scena da parte delle Assemblee parlamentari.
Dinanzi a tutto questo, chi ha a cuore l’interesse della nazione, anziché inseguire la sirena autocratica (se proprio non vogliamo definirla autoritaria) del capo che comanda, con tutti gli altri a fare da contorno, dovrebbe lavorare in direzione di una riforma seria del potere esecutivo, che miri a legittimare una maggioranza capace di esprimere una guida affidabile e funzionale al conseguimento degli obiettivi di stabilità dei governi ed efficacia dei processi decisionali.
Perché, vedete, noi vorremmo semplicemente questo: maggiore forza e stabilità degli esecutivi, e maggiore forza del Parlamento, ovvero della rappresentanza popolare che il Parlamento esprime. Dei cittadini.
Sono obiettivi possibili, se si dismette il populismo costituzionale e si assume un atteggiamento più concreto e pragmatico.
Come si può fare, cosa proponiamo noi del Partito Democratico? Anzitutto, confermando l’assetto parlamentare della forma di governo, si deve rivitalizzare il legame tra rappresentati e rappresentanti attraverso una legge elettorale che, abolendo definitivamente le liste bloccate, razionalizzi senza distorcere la volontà dell’elettorato, con attenzione alla parità di genere.
Al tempo stesso, si può prevedere l’indicazione del nome del o della presidente del Consiglio nella scheda elettorale, così da ottenere una indicazione vincolante a garanzia tanto della coesione delle coalizioni, quanto del rispetto della volontà popolare.
Si deve rafforzare il ruolo del Presidente del Consiglio, destinatario unico del voto di fiducia e dotato del potere di proporre la sostituzione dei ministri.
Si deve legare la possibilità di cambi di governo alla sfiducia costruttiva, in modo da dare elasticità e adattabilità al sistema, senza minare la stabilità dei governi.
Infine, si dovrebbero modificare i regolamenti parlamentari per garantire l’attuazione del programma di governo e il rispetto di tempi certi per l’approvazione delle leggi senza dover alterare l’equilibrio dei poteri attraverso l’abuso della decretazione d’urgenza e l’inflazione dei voti di fiducia.
Oltre a tutte queste questioni, di merito e di metodo, vi è la questione centrale, per cui sento di rivolgere un appello al governo e alla maggioranza.
Possiamo, potete, ancora fare la cosa fondamentale quando si affronta una riforma delle regole della democrazia, delle regole in cui tutti i cittadini si devono poter riconoscere. Queste regole non possono essere espressione di una sola parte politica, ma devono rappresentare il risultato di un percorso che, anche partendo da elaborazioni distinte, porti alla più ampia condivisione parlamentare.
Questa è l’unica via per evitare che le regole che reggono il funzionamento delle istituzioni democratiche, anziché essere il terreno all’interno del quale si dispiega il confronto e anche il legittimo contrasto tra parti politiche, divengano esse stesse l’oggetto di tale dialettica. Per un Paese come il nostro, dalle strutture democratiche e sociali particolarmente fragili, sarebbe davvero una sciagura.
Come sarebbe una sciagura, simile a quella della legislatura 2013/2018, stavolta sul versante della destra, la perdita di un enorme capitale politico investito su una riforma delle istituzioni. Io, in quella legislatura, anche dissentendo dal mio stesso partito non ho mai votato le leggi elettorali proposte a maggioranza, ed ero consapevole del rischio di una riforma costituzionale destinata al referendum, senza ricerca della necessaria condivisione parlamentare. Fu un errore, fu un grave errore. Perché ripeterlo, perché volete ripeterlo? Abbiamo già perso dieci anni dal 2013, e voi correte il rischio di perderne altri dieci; cosa che dobbiamo, purtroppo, augurarci se la riforma rimarrà questa.
Dunque, il mio auspicio è che il governo e la maggioranza, anziché ostinarsi nell’intento di stravolgere la Costituzione a colpi di maggioranza, tornino sui loro passi e cerchino la condivisione della larga maggioranza di questo Parlamento.
Se non lo faranno, la nostra opposizione, in Parlamento e nel Paese, sarà tenace e durissima così come esigono la storia della Repubblica e il sacrificio dei tanti che hanno combattuto per costruirla.