Primarie e programma: università, tasse, giovani

Primarie e programma: università, tasse, giovani

Superate le schermaglie polemiche legate a rottamazioni e regole, sembra finalmente giunto il tempo perché le primarie siano un confronto sul programma di governo del centrosinistra.

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Finora Pier Luigi Bersani ha dato al rilancio di istruzione, università e ricerca un’importanza centrale. Lo ha fatto simbolicamente, avviando la sua campagna per le primarie a Ginevra coi ricercatori del CERN, e lo ha fatto concretamente, imponendo al governo la marcia indietro su ulteriori tagli alla scuola o interventi improvvisati sugli enti di ricerca, dopo che il Pd ha contrastato, la scorsa estate, l’aumento delle tasse universitarie, dopo aver avanzato all’esecutivo guidato da Mario Monti prima, all’atto della sua costituzione, le proprie proposte per l’agenda di governo, e successivamente un pacchetto di misure per sostenere il diritto allo studio. Tutti, perlomeno a parole, sembrano condividere la centralità di istruzione, ricerca e innovazione per riattivare la mobilità sociale e ridare speranza per i giovani. Nei giorni scorsi anche Matteo Renzi, intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Firenze, ha dichiarato che “sarà un grande giorno quando il sistema paese capirà che non si può continuare a investire nell’Università le briciole che oggi si investono, con una media che è largamente al di sotto dell’Europa a15”.

Veniamo, dunque, al merito delle questioni. Quando afferma la necessità di portare gli investimenti a livelli europei, di agevolare la contribuzione dei privati, di preoccuparci non solo dei talenti che perdiamo ma anche di quelli che non attraiamo, il sindaco di Firenze dice cose condivisibili. Ma il suo programma sull’università sembra molto distante dalle esigenze degli studenti e dell’università italiana su un punto decisivo: il legame tra diritto e merito nella “partecipazione” agli studi, e la concezione dell’istruzione universitaria come servizio pubblico universalistico, accessibile a tutti gli studenti “capaci e meritevoli, ancorché privi di mezzi”, come recita la Costituzione. Renzi propone, infatti, che sia possibile per gli atenei aumentare le tasse a carico degli studenti (senza limite, si deve supporre) “in funzione di progetti di eccellenza didattica, trovando al tempo stesso compensazioni per le famiglie con redditi medi o bassi”. Del termine “eccellenza”, come ci insegnano le vicende della Regione Lombardia e del governatore Formigoni, si può spesso abusare, quindi cerchiamo di collocare queste affermazioni in un contesto internazionale.

In Europa, si confrontano due modelli: quello continentale e quello anglosassone, recentemente modificato dal governo Cameron. Nel primo abbiamo tasse bassissime (è il caso della Francia, del Belgio, della Svizzera) o addirittura inesistenti (nei paesi nordici Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, così come in quasi tutti i Länder della Germania), con un forte intervento nel diritto allo studio: ricevono borse di studio, infatti, il 25,6% degli studenti francesi (1,6 miliardi), il 30% di quelli tedeschi (2 miliardi) e il 18% spagnoli (943 milioni) [elaborazione Osservatorio regionale per l’Università e per il Diritto allo studio della Regione Piemonte, sulla base di dati ufficiali].

Nel Regno Unito è stata recentemente introdotta la possibilità di innalzare le tasse universitarie a 9.000 sterline, colta al balzo da tutti gli atenei, non solo i migliori. Una svolta molto criticata dagli studenti, i cui effetti negativi sono ormai evidenti: ha allontanato gli studenti meno abbienti, come dimostra il rapporto HEPI non funziona neppure sotto l’aspetto finanziario, perché si basa su ipotesi troppo ottimiste, soprattutto dato l’attuale clima economico. Recentemente persino il vice-premier Clegg si è sentito in dovere di scusarsi per aver adottato questo intervento. Nei sistemi anglosassoni a una tassazione così elevata fanno fronte prestiti bancari concessi studenti: il che potrebbe sembrare un buon compromesso, ma negli USA questo sistema ha generato un debito monstre a carico degli studenti, che nel 2012 ha superato i mille miliardi di dollari, cui i provvedimenti di Obama stanno cercando di porre rimedio. Inoltre, in Gran Bretagna, i prestiti sono solo per gli studi undergraduate. Chi vuol andare oltre (sostanzialmente per una specialistica nostrana) deve pagare tutto e subito di tasca propria.

L’Italia tende a coniugare il peggio di entrambi i sistemi (vedi il grafico qui sotto): le tasse più elevate nell’ambito del sistema “continentale” e il peggior sistema di diritto allo studio.

In Italia, infatti, solo il 7% degli studenti ha una borsa di studio (258 milioni di euro di fondi pubblici), e siamo al terzo posto per la tassazione in Europa (1289 dollari all’anno, nel 2009), dopo Gran Bretagna e Paesi Bassi (rispettivamente a 4700 $, prima che venisse adottata la “riforma Cameron”, e 1860 $), paesi nei quali però il costo per studente è, rispettivamente, pari a 16.338 e 17.854 dollari, contro i nostri 9.562.

Perché il modello anglosassone trova favori anche da noi? Il ragionamento parte da due presupposti: le tasse universitarie sarebbero troppo basse rispetto al costo di ciascuno studente e l’università, pagata con la fiscalità generale (da tutti) è frequentata dai ceti medio-alti.

Dunque, i poveri pagherebbero l’università ai ricchi.

Ciò è falso quanto alla prima questione (le tasse in Italia sono già alte, come abbiamo visto) e sbagliato per la seconda. Infatti, a parte il fatto che i “ricchi”, al netto dell’evasione fiscale, sono anche coloro che pagano più tasse, la vera sfida riformista è aprire l’università a fasce più ampie, chiedendo certo di più (maggiore progressività) ai pochi che se la possono permettere, ma non aumentando la tassazione media. Che, al contrario, deve essere diminuita per riportarla nella media UE.

Invece, così si avvalora l’idea che il “servizio università” non sia universale e si accetta l’idea di un suo sottofinanziamento perpetuo. Così la qualità diffusa del sistema universitario evapora, e i veri benestanti (chi se lo può permettere) andranno nelle private o all’estero. Con tanti saluti a giustizia, mobilità e circolazione dei cervelli.

Al di là dell’assenza di dettagli tecnici, il programma di Renzi sembra partire dal modello formulato lo scorso anno da Andrea Ichino e Andrea Terlizzese: un sistema che si richiama esplicitamente al Rapporto Browne, lo studio preliminare all’intervento del governo Cameron, e che, pur dotato di una sua razionalità, crediamo non possa corrispondere né alle priorità dell’università italiana né, tantomeno a una politica di centrosinistra, come abbiamo affermato quando alcuni parlamentari del PD ne hanno prospettato l’adozione. Al contrario, è possibile – lo abbiamo proposto – che i prestiti d’onore intervengano nelle aree non coperte dal diritto allo studio (studenti sopra la soglia di reddito minima ma che comunque necessitano di un supporto, e sostegno alla formazione post-universitaria). Ciò che invece non è concepibile che il sistema universitario sia finanziato in proporzioni sempre più ridotte dalle risorse pubbliche, e che continui ad aumentare – come è avvenuto negli ultimi anni – la proporzione legata alla contribuzione studentesca. Il punto non è teorico, ma tiene conto della situazione di fatto: siamo il paese UE che investe meno, in rapporto alla spesa pubblica complessiva, in istruzione, i penultimi al mondo prima del Giappone (tabella qui sotto) , e investiamo nell’istruzione universitaria poco più della metà della media europea.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come si evince dal rapporto Giarda (altra tabella qui sotto), nel silenzio generale e senza nessuna decisione politica democratica l’Italia negli ultimi 20 anni ha ridotto enormemente i propri investimenti in istruzione.

 

Oppure a qualcuno risulta che lo abbiano deciso (in modo esplicito e trasparente) gli elettori, il Parlamento, le forze politiche o sociali? No, ma è accaduto.

La domanda è chiara, a questo punto: pensiamo che questa tendenza sia un processo ineludibile e intendiamo continuare a disinvestire nell’istruzione e nell’università? Pensiamo che ridurre e disciplinare la spesa pubblica comporti come conseguenza “lineare” l’ulteriore riduzione degli investimenti pubblici in questo settore? La risposta della destra, di Tremonti-Gelmini-Berlusconi, la conosciamo già. Con l’esperienza del governo Monti, in una condizione di finanza pubblica drammatica, nonostante alcuni tentativi orientati dalle alte burocrazie del ministero dell’Economia (che non sono cambiate) e qualche indecisione di troppo del ministro dell’Istruzione, si è rallentato questo processo. Ma è necessaria una vera svolta. Quindi diciamolo chiaramente, e assumiamo questo impegno: le risorse pubbliche non possono essere ulteriormente rimpiazzate dalla contribuzione studentesca, perché i cittadini le tasse le pagano (e devono farlo tutti) già una volta, e non vi è ragione perché lo Stato dismetta questa essenziale politica pubblica. E un piano di riduzione e controllo della spesa pubblica, coi risparmi strutturali derivanti dai processi di revisione della spesa e dalla riforma della previdenza, è necessario anche per avere maggiore elasticità nella determinazione di poche, e chiare, direttrici nella quale aumentare gli investimenti pubblici, incentivando, al contempo, quelli privati. Le ragioni che giustificano una scelta strategica di questo genere stanno scolpite in tutte le analisi che leggiamo e ascoltiamo quotidianamente dalle fonti più autorevoli, sia scientifiche che istituzionali. Dobbiamo essere coerenti, e passare dalle parole ai fatti. E sfatiamo qualche mito: persino negli Stati Uniti, dove il contributo dei privati all’università è molto elevato, alla base vi è un investimento pubblico più elevato (rispetto al PIL) di quello italiano. L’eccellenza si può costruire solo se alla base c’è un ampio e diffuso sistema universitario di qualità.

Queste sono le ragioni per le quali il Partito Democratico guidato da Bersani sostiene un modello radicalmente diverso rispetto alla riproposizione (parziale, dalla parte dei suoi difetti e senza i suoi pregi) di quello anglosassone. Anche qui, partiamo da alcuni dati di fondo: siamo uno dei paesi europei con la più bassa percentuale di laureati (circa il 21% tra i 25/34enni, media UE 32,5%), e i nostri giovani si iscrivono sempre meno all’università (-10% nell’ultimo anno). Oltretutto – l’assenza del diritto allo studio ha le sue inevitabili conseguenze – solo il 9% di figli di genitori non diplomati completa l’università (media OCSE 20%, i principali paesi europei sono tra il 30 e il 40%. Allora, il nostro primo obiettivo è culturale. Il paese, a partire dalle sue classi dirigenti (non solo politiche), deve comprendere che l’imperativo è fermare la “fuga dall’università” che blocca la mobilità sociale e facilita le rendite di posizione e la trasmissione ereditaria delle professioni, con un’allocazione delle risorse umane del tutto impropria, che rappresenta una delle principali cause della perdita di speranza nel futuro di alcune generazioni di giovani. Negli ultimi anni si è assistito a campagne di disinformazione grottesche, i cui autori portano con sé responsabilità grandissime, non attenuate dall’evidente ignoranza che le ha determinate: così, dallo scranno ministeriale a quello di opinionisti di diversa estrazione negli anni passati si è sostenuto che il problema italiano è “evitare che i diplomati si riversino nell’università” e nel piano “Italia 2020” è stato scritto che “l’iscrizione di massa dei nostri diplomati alla università non risponde alle reali esigenze del mondo del lavoro e neppure alle prospettive di crescita degli stessi studenti”. Iscrizione di massa, si noti, in un paese che, oltre che per numero di laureati, è assai indietro per percentuale di giovani iscritti all’università (vedi tabella qui sotto, nella prima colonna dati Italia, nella seconda media OCSE, nella terza la posizione dell’Italia. OCSE 2012).

Si è brandito il superamento di una “inattitudine all’umiltà” da parte dei giovani, senza affrontare i nodi della formazione tecnica e professionale, si è confusa la necessità di differenziare i percorsi formativi, potenziando l’istruzione tecnica, con la opportunità di ridurre il livello di istruzione. Si è affermato, anche qui in atti ufficiali (e fondamentali) di governo, come gli impegni assunti dal nostro paese nel Programma Nazionale di Riforma per conseguire gli obiettivi di Europa 2020, che “ci accontentiamo” di raggiungere nel 2020 obiettivi – su percentuale di laureati e tasso di abbandono della scuola dell’obbligo – inferiori alla media europea del 2010. In fondo, il miglior riassunto della cultura politica che la destra ha portato nella gestione delle politiche dell’istruzione lo ha fatto, con la sua innegabile chiarezza, Berlusconi: quando – nel 2006, durante il faccia a faccia con Romano Prodi – affermò che rendeva impensabile “rendere uguale il figlio dell’operaio con il figlio del professionista”, e ancora quando affermò la sua comprensione dei processi di innovazione necessari per mantenere competitivo il nostro settore manifatturiero affermando che “per fare delle scarpe non occorre mica la laurea”. Ecco, il nostro compito sarà di invertire questa logica, e di compiere una grande azione pedagogica, promozionale, di comprensione, da parte degli italiani, della necessità ineludibile di colmare il gap che ci separa, in termini di livello di istruzione e di qualità del nostro sistema formativo, con le nazioni con le quali ci confrontiamo. Se i nostri laureati entrano meno agevolmente nel mercato del lavoro di quelli degli altri paesi e se guadagnano in proporzione meno, la soluzione non è evitare la laurea. L’unica soluzione possibile è anticipare e potenziare l’orientamento, collegare istruzione e lavoro, accompagnare il cambiamento della nostra struttura produttiva, incrementare la formazione continua dei lavoratori adulti.

Fare ricerca, trasmettere la cultura, formare le persone, contribuire allo sviluppo economico e sociale del territorio: queste, in fondo, sono le funzioni essenziali dell’università. Non è questa la sede per entrare ulteriormente in dettaglio, ma è chiaro che la prima condizione per mantenere una diffusa alta qualità dei nostri atenei è una classe docente giovane e competente. Condizione dalla quale ci allontaniamo sempre più a causa di blocchi al reclutamento che perdurano ormai da troppi anni (mentre abbiamo meno docenti in ruolo del necessario), e procedure lente, complicate, incerte per l’accesso alla carriera universitaria. Serviranno regole più semplici e politiche capaci di consentire ai migliori talenti di assecondare la loro vocazione e di svolgere, in Italia, la professione di ricercatore e di docente superando sì dure selezioni, ma non corse a ostacoli dove non sempre prevale il migliore. Così come dobbiamo darci regole chiare per la ripartizione delle risorse basate sulla coesione del sistema e la valorizzazione degli atenei migliori, promuovere la valutazione, migliorandone gli aspetti applicativi, e premiare i docenti più bravi. Occorre agire non solo sulle strutture ma soprattutto sulle persone, studenti e ricercatori, e smetterla una volta per tutte di trattare l’università come una palla al piede. Il diritto allo studio è la vera scommessa per la coesione del Paese. La diversità culturale dell’Italia merita un Erasmus interno, un diritto allo studio mobile che incentivi trasferimenti tra atenei non sulla direttiva sempre più obbligata dal Sud al Nord, ma come esperienze di vita e di ricerca.

La sfida democratica e progressista è conciliare giustizia sociale (dare a tutti l’opportunità di studiare e realizzarsi), merito (premiare i capaci e meritevoli, come dice la Costituzione) e interesse generale del Paese (l’incrocio tra i talenti e le opportunità). Stare in Europa è fare questa politica. Il nostro nemico non è il mondo dell’università, ma il blocco della società, il basso livello di istruzione, l’ereditarietà professionale e le rendite di posizione abnormi.  Il PD in questi anni ha lavorato su questi temi, e lo ha fatto in modo unitario. I discorsi che animano la nostra politica, infatti, non sono solo quelli di Barack Obama, su cui è facile ritrovarsi. Sono anche i discorsi dei giovani ricercatori che vivono nella frustrazione e hanno paura di disperdere le loro energie nel nostro Paese.

A me piacerebbe che riuscissimo, su questa materia, ad avere un approccio comune. Sostengo Bersani per molte ragioni, non ultima quella che ha ben presenti queste priorità e ha in mente come portarle nell’azione di governo. Però sarebbe un bene per il Paese se Renzi cambiasse idea, e modificasse questo specifico punto del suo programma. Dato che né io né lui, nati negli anni ’70, siamo più tanto giovani, sarebbe un bel segnale verso i veri giovani italiani.

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