Proposta «choc»: baroni via a 65 anni. Asor Rosa freddo: pensino alla Gelmini
Università – Il documento di Marco Meloni, 36enne responsabile atenei del partito
ROMA – «Potevo restare altri cinque anni: andando via a 70 ho compiuto un gesto eroico, rarissimo nell’ambiente». Alberto Asor Rosa dall’alto dei suoi 76 anni e di una lunga carriera accademica, è a tutti gli effetti un «barone», sia pure pensionato. Uno di quei «baroni» che ora il Partito democratico vorrebbe cacciare dall’università.
«Choc generazionale». Così recita lo slogan delle sette pagine sull’università che verranno presentate oggi dal Pd. Ringiovanire la classe docente – età media più bassa di dieci anni in dieci anni – e anticipare la data di pensionamento a 65 anni. Non è un caso che a redigere il documento sia stato un giovane, Marco Meloni, 36 anni, responsabile università del Pd e ricercatore dell’Arel, l’agenzia diretta da Enrico Letta. Asor Rosa chiede notizie: «C’è qualcosa sulla Gelmini? Perché se il Pd non si accorge che la mortificazione dei dipartimenti è il punto centrale di una strategia d’attacco, allora vuol dire che è ottuso».
E i baroni? «La misura dei 65 anni è giusta, ma insufficiente. Aprire nuovi spazi ma non è così meccanico come sembra: alla Sapienza ogni cinque pensionamenti c’è un nuovo arrivo. Il turn over è fatale, inevitabile, ma pensare di risolvere tutto mandando in pensione i baroni è elementare, insufficiente e rozzo».
Il documento Pd abbozza un sibillino mea culpa: «Cominciamo da una seria autocritica: le politiche dei governi di centrosinistra non sono esenti da colpe». Con Asor Rosa si sfonda una porta aperta: «Contro la famosa riforma del 3+2 ho battagliato per anni: ha contribuito ad abbassare il livello delle università italiane. L’autocritica dovrebbe essere ben più forte». Luigi Berlinguer è stato quattro anni ministro dell’Istruzione: «Mi fregio del titolo di barone rosso», scherza. Anche lui è andato in pensione a 70 anni: «Il Pd ha ragione a chiedere di aprire nuove strade d’ingresso ai giovani e accorciare la permanenza da parte dei professori anziani può essere una soluzione. Ma bisogna trovare un modo per salvare esperienze e intelligenze scientifiche». E i baroni? «Sono certamente un elemento degenerativo. Il reclutamento è personalizzato e familistico.
Ma c’è una patologia ancor più grave, la governance: bisogna evitare che gli organi di autogoverno siano rappresentativi solo di interessi interni, bisogna rompere la corporazione». Quanto all’autocritica, Berlinguer si chiama fuori: «Non sono convinto sia opportuna. Quando ero ministro, i fondi per la ricerca sono sensibilmente aumentati. E non sto a dire cosa mi è costata la guerra nel governo». Luciano Modica, ex rettore a Pisa e responsabile università con Veltroni e Franceschini, è critico: «Sono perplesso. Giusto dare spazio ai giovani, ma siamo sicuri che sia la strada giusta? Da sottosegretario, con Mussi, finanziammo con 80 milioni all’anno l’assunzione di 4.000 ricercatori. Pensionare prima può andar bene, ma c’è già stata un riduzione di sette anni, da 77 a 70: se si abbassa ancora, nell’arco di dieci anni avremmo tolto 12 anni di carriera».
Ignazio Marino barone non lo è: «Non mi convince il documento di Meloni, non basta il criterio anagrafico. Nel 1980 fu varata la legge madre di tutti i disastri, con la quale entrarono in ruolo, inamovibili, 30 mila docenti. Molti hanno lavorato bene, molti altri non hanno fatto nulla. Facciamo un’anagrafe: chi non ha prodotto lavori scientifici, lo accompagniamo alla porta».
Alessandro Trocino