Quando perdersi fa perdere. Appunti per la Direzione del PD

Quando perdersi fa perdere. Appunti per la Direzione del PD

“Si vince insieme, si perde da soli”: la regola è nota agli allenatori di calcio e ai segretari di partito. L’attuale segretario del PD rivoluziona il concetto: egli è l’artefice delle vittorie (vedi le Europee 2014), ma le sconfitte sono solo responsabilità altrui.

Nelle regionali di domenica, nasce una novità: la vittoria-sconfitta. Una sconfitta bruciante quando si tratta di individuarne i responsabili: Civati&Pastorino (anche in Veneto?), le minoranze gufanti del Pd, gli insegnanti che non plaudono alla “grande-riforma-della-scuola”, i sindacati, e così via. Ma per magia, diventa “un risultato molto positivo” quando a parlarne è il segretario.

Dal voto emergono tre elementi. Anzitutto, il risultato: vittoria o sconfitta? Una pesante battuta d’arresto, come minimo. Come nel 2010, il risultato è di 5 vittorie e 2 sconfitte. Ma la performance dei presidenti eletti cala nettamente: la Marini passa dal 57,2 al 42,8%, nelle Marche si va dal 53,2 al 41%, Rossi scende dal 59,7 al 48%. Tra calo dei votanti e delle percentuali dei vincitori, chi vince rappresenta, quando va bene, un quarto dei cittadini della propria regione. Quanto al PD, evitando impietosi paragoni con le Europee (lasciamo sul terreno oltre 2 milioni di voti), limitiamo il raffronto alle Regionali 2010: passiamo dal 25,9 al 25,2% e andiamo peggio quasi ovunque (Liguria da 28,3 a 25,6%, Veneto da 20,3% a 16,7%, Umbria da 36,2 a 35.8%, Campania da 21,4 a 19,5%, Puglia da 20,7 a 18,8%). Il centrosinistra nel suo complesso passa dal 45,5 al 38% (elaborazioni CISE).

Secondo, il prezzo di credibilità pagato per la vittoria in Campania. Il candidato del PD, in base al Codice di autodisciplina adottato (all’unanimità) dall’Antimafia, non avrebbe potuto neppure essere candidato. Un candidato che ha accolto nelle sue liste casalesi (“gomorra è nelle liste di De Luca”, ha affermato Saviano) e fascisti, eletto coi voti decisivi di quelle liste e di un partito di centrodestra, e che in quanto condannato non potrà comunque esercitare il suo mandato, ammesso che possa essere insediato (alcuni giuristi esprimono forti dubbi; e Dio non voglia che a palazzo Chigi si dia seguito all’affermazione dell’interessato, non smentita: “Renzi mi ha assicurato che la Legge Severino è superabile”). Abbiamo sempre contestato a Berlusconi la pretesa di sentirsi al di sopra della legge, e non possiamo certo cambiare idea ora, solo perché la vicenda riguarda un nostro esponente: la logica dei due pesi e delle due misure arreca un danno irreparabile alla credibilità del PD.

Terzo: quale lezione trarre da questa battuta d’arresto? I dirigenti del PD sostengono che il partito è indebolito dalle minoranze. Risposta: “ordine&disciplina” per i gruppi parlamentari. Per il resto “correre” più spediti che mai, senza tentennamenti, sulla linea seguita finora. Sta qui, a mio avviso, la cecità del segretario: decidere di “correre” senza vedere che è questa linea che ci conduce a perdere.

Il PD perde se rinuncia alla sua anima di centrosinistra e all’idea di unificare, attorno a una identità nuova, le culture che ne sono all’origine.

Il PD perde quando si mettono di continuo, e intenzionalmente, le dita negli occhi a chi ha idee diverse da quelle di chi lo dirige (idee spesso fedeli al programma del 2013, con cui abbiamo ottenuto i voti grazie ai quali governiamo).

Il PD perde se non è capace di costruire consenso sulle riforme che promuove, coinvolgendo gli interlocutori economici e sociali e le loro rappresentanze (sì, i corpi intermedi). Se, anziché diffondere un’idea nuova e positiva dello Stato e delle sue comunità, alimenta l’ostilità dei cittadini nei confronti della burocrazia, degli insegnanti, dei magistrati, e così via. Perde il consenso dei secondi, e soprattutto porta i primi su posizioni ancor più estreme. Alla lunga chi gioca col populismo fornisce argomenti e consensi ai populisti veri.

Il PD perde se anziché un partito moderno si limita a essere un effimero riflesso dell’immagine del leader. Deve aprirsi alla società e darsi una classe dirigente diffusa e credibile, che sappia dire la verità ai cittadini sulle riforme e sulle sfide che abbiamo davanti.

Il PD perde se non fa chiarezza. Vogliamo davvero ridurre le diseguaglianze e promuovere equità e crescita? Pensiamo di dare i soldi ai cittadini per “acquistare” i servizi essenziali (gli 80 euro, i 40 euro…), o riteniamo prioritario portare la spesa dell’istruzione a livelli europei e ridurre le tasse sul lavoro? Finora non siamo stati in grado di farlo capire.

Il PD perde se è il partito della legalità a corrente alternata. Una proposta semplice: recepiamo subito nel Codice etico le previsioni della Legge Severino e del Codice di autoregolamentazione antimafia.

Il PD perde, infine, se restringe gli spazi di democrazia e partecipazione, come con l’Italicum, e se – come viene annunciato – anziché regolare per legge le primarie, da partito aperto che affida ai cittadini la scelta dei candidati, agisce per commissariamenti e scelte calate dall’alto.

Se perde la sua anima, il PD perde entrambe le sue scommesse: unire in un nuovo progetto il centro riformista e la sinistra classica, e conquistare, intorno al proprio programma, vaste fasce dell’elettorato centrale moderato, quello decisivo per vincere.

Questo PD perde voti, perde credibilità, e rischia di perdere l’anima. Parafrasando Arturo Parisi, stavolta perdersi e perdere coincidono. Il campanello d’allarme di queste elezioni, però, può essere una scossa salutare: il Partito Democratico può ancora essere salvato, e tornare vincente.

Come? Cambiamo registro sulla riforma istituzionale: più garanzie e contrappesi (con Parlamento e governo entrambi più forti), più spazi di decisione degli elettori, più coraggio su ruolo e numero delle regioni.

Su istruzione, welfare, diritti, prendiamoci la responsabilità di scelte chiare e di riforme vere, senza usare il “solo contro tutti” per coprire i nostri vuoti. Per cambiare l’Europa, superiamo la fase “abbasso i burocrati” e “faremo casino”, e prendiamo la guida della costruzione di un’Europa politica più democratica, che con una vera revisione della spesa pubblica è la via per uscire realmente dall’impoverimento e rilanciare gli investimenti.

E soprattutto mettiamoci al lavoro, da qui fino alle elezioni del 2018, per costruire il tessuto di una classe dirigente rinnovata e competente. Un partito che non viva con l’ossessione del potere e del nemico, ma sappia riconnettere la società e i territori dell’Italia, trovare la chiave per interpretare le potenzialità del Nord che vuole riprendere a correre e i bisogni di un Sud nel quale possibilità di ripresa, legalità e istruzione vanno insieme, e al momento non vanno affatto. Senza affrontare le vere emergenze del Paese, e senza ascoltare gli italiani, verremo travolti dal disordine e dalla protesta. E riconsegneremo l’Italia alla destra e alla palude, quella vera. Per questo dobbiamo cambiare, e costruire un partito che, insieme, sappia affermare il suo progetto e rappresentare l’interesse generale del Paese.