Una buona riforma che attua il nostro programma elettorale. Ora riaprire il dialogo, rispettare la Costituzione, cambiare la legge elettorale

Una buona riforma che attua il nostro programma elettorale. Ora riaprire il dialogo, rispettare la Costituzione, cambiare la legge elettorale

Intervento nella Discussione generale sul voto finale al DDL di riforma costituzionale
Roma, Camera dei Deputati, 11 aprile 2016
Signor presidente, Onorevole rappresentante del governo, Onorevoli colleghi,
nell’indicare la logica da seguire per dare vita a processi di riforma costituzionale, Roberto Ruffilli – nell’introduzione al volume “Il cittadino come arbitro”, che fu dato alle stampe pochi giorni prima del suo assassinio per mano dei brigatisti rossi, avvenuto il 16 aprile 1988 – richiamava quella “indicata da La Pira alla Costituente (…), che fa della Costituzione e della Repubblica la ‘casa comune’ della società italiana; da ciò, la necessità di “superare la tentazione delle ‘riforme partigiane’, volte ad avvantaggiare un partito od una istituzione a scapito delle altre, puntando, invece, alle ‘riforme sistemiche’, quelle volte a mettere tutti i partiti e tutte le istituzioni in grado di fare la propria parte al servizio dei cittadini”.
Noi, nel Parlamento italiano, una cosa del genere non siamo in grado di farla da molti decenni. Con qualche eccezione – tra questa la più recente è la fondamentale riforma dell’articolo 81 sul pareggio di bilancio, che fu approvata nel 2012 da tutti i principali partiti e con l’astensione della Lega, sebbene ora molti fingano di aver agito in stato di ipnosi – fin dagli anni Ottanta i progetti di riforma o sono naufragati all’ultimo miglio (dalla Commissione Bozzi alle Bicamerali De Mita–Iotti e D’Alema) o sono stati approvati con i soli voti della maggioranza, tanto da essere sottoposti al referendum ex art. 138 della Costituzione: così accadde nel 2001 – con esito referendario positivo – e poi con la riforma del 2005, bocciata l’anno seguente in sede referendaria.
Esistono delle responsabilità perché siamo, anche in questa legislatura, in questa situazione? Certamente. Le principali sono chiare. Non possiamo non considerare che la seconda forza politica per numero di parlamentari, il Movimento 5 Stelle, ha deciso fin da principio di non “confondersi” con nessuno in progetti di riforma, condannando all’irrilevanza parlamentare oltre 8 milioni di voti; la terza forza per numero di parlamentari, Forza Italia, ha invece deciso se e come aderire al processo riformatore a seconda delle convenienze del momento: sì all’inizio della legislatura, quando eleggemmo il presidente Napolitano con l’esplicito obiettivo di assegnare ad essa principalmente una funzione costituente; no quando un Tribunale, applicando la legge (che “è uguale per tutti”, ricordare quanto sta scritto nelle Aule di giustizia e nell’articolo 3 della Costituzione non fa mai male) il leader subì una condanna, dopo averne evitato molte altre in modo rocambolesco, anche in seguito all’approvazione – quando era al governo – delle famigerate leggi “ad personam”; di nuovo sì quando si trovò nelle condizioni di poter stringere un accordo politico volto a estromettere dalla guida del governo chi lo aveva messo ai margini del sistema politico; infine, no quando si è reso conto di non poter incidere quanto avrebbe voluto sulle scelte di governo o parlamentari, un esempio per tutti l’elezione del presidente della Repubblica. Insomma, l’abituale comportamento da statista animato da un sacro interesse per la Repubblica e le sue istituzioni democratiche, cui Silvio Berlusconi ci ha abituato per oltre 20 anni.
Per parte nostra, il Partito Democratico è entrato in questo Parlamento con l’obiettivo di riformare la Costituzione, e ci sta riuscendo.
Lo dico anche perché ho letto sorprendenti affermazioni di eminenti costituzionalisti che animano il comitato per il NO a un referendum che peraltro non è stato ancora indetto, secondo le quali “la presentazione di un disegno di legge costituzionale per la revisione della Costituzione, ancorché non presente nel programma elettorale del PD, era esplicitamente previsto nel programma del Governo Renzi.”
Niente di più contrario alla verità.
Anzitutto il programma allegato alle liste della coalizione dei democratici e dei progressisti – che, mi permetto di affermare, dovrebbe vincolare anche i parlamentari di SEL e dell’attuale Sinistra Italiana – afferma testualmente: “sulla riforma dell’assetto istituzionale, siamo favorevoli a un sistema parlamentare semplificato e rafforzato, con un ruolo incisivo del governo e la tutela della funzione di equilibrio assegnata al Presidente della Repubblica (…). Daremo vita a un percorso riformatore che assicuri concretezza e certezza di tempi alla funzione costituente nella prossima legislatura”.
Nel programma più dettagliato sulle riforme istituzionali – lo si può trovare ancora nel sito internet del Partito Democratico – si afferma la necessità di “rendere il sistema decisionale più rapido, più efficiente e più controllabile e potenziare gli strumenti di partecipazione dei cittadini”. Il che significa “restituire ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento attraverso la riforma della legge elettorale, che preveda una netta differenziazione tra il sistema elettorale della Camera – che deve favorire la costruzione nelle urne di una maggioranza di governo – e il sistema elettorale del Senato – che deve favorire la rappresentanza dei territori”.
Quanto appunto al potenziamento degli strumenti di partecipazione – cito ancora testualmente – “si deve inoltre rafforzare l’istituto del referendum, aumentando il numero delle sottoscrizioni necessarie per l’iniziativa (…), abbassando il quorum richiesto per la validità della consultazione, riferendolo alla partecipazione al voto registrata nelle precedenti elezioni per la Camera dei deputati”, e “rafforzare le proposte di legge di iniziativa popolare”.
Riguardo alla funzione parlamentare, il proposito era “Riqualificare il Parlamento come luogo della rappresentanza politica della nazione (Camera) e dei territori (Senato): ridare autorevolezza e rappresentatività al Parlamento, oltre che con una nuova legge elettorale, attraverso il dimezzamento del numero dei parlamentari, il potenziamento delle funzioni di controllo, il superamento del bicameralismo paritario con funzioni e competenze differenziate tra Camera e Senato: la Camera dei deputati, rappresentante della nazione, sarebbe titolare del rapporto fiduciario mentre il Senato, rappresentante delle autonomie territoriali, avrebbe il potere di richiamare tutte le proposte di legge approvate dalla Camera entro i limiti e alle condizioni fissate dalla Costituzione; dovrebbe inoltre “governare” il rapporto tra Stato, Regioni, Autonomie locali (…).
Quanto alla forma di Governo, il programma era certamente più deciso, rispetto al testo che ci accingiamo ad approvare, circa il rafforzamento dell’esecutivo. Ci si proponeva infatti di “Razionalizzare l’azione dell’Esecutivo, preservando la natura parlamentare della forma di governo”, e di “sviluppare le indicazioni contenute nella Costituzione secondo le quali il presidente del Consiglio dirige la politica generale del governo e ne è responsabile (…). Si propone che il Presidente del Consiglio dei Ministri riceva direttamente la fiducia; nomini e revochi i ministri; possa chiedere al presidente della Repubblica, dopo la deliberazione del Consiglio dei Ministri, lo scioglimento della Camera. Sui disegni di legge del governo può chiedere il voto a data fissa (…) nei limiti e secondo le modalità stabilite dai regolamenti parlamentari.”
Quanto alla forma di Stato, riguardo al rapporto Stato-Regioni, il programma affermava la necessità di “Completare e ottimizzare, alla luce dell’esperienza, la riforma attuata con il nuovo Titolo V, per giungere a un sistema di regionalismo cooperativo e solidale: ridurre le sfere di competenza concorrente e introdurre la clausola di sovranità.
Questo, dunque, il programma della coalizione di centrosinistra e del Partito Democratico.
Ebbene, cosa stiamo facendo dal giorno dopo le elezioni del febbraio 2013, e nonostante le difficoltà determinate dal loro esito, prima con il lavoro dei “saggi” nominati dal presidente Napolitano, per passare all’azione del governo Letta e poi del governo Renzi, se non attuare quel programma?
Gli esempi sono quasi superflui per chi conosca il testo sottoposto in ultima lettura all’approvazione di questa Camera e l’attività legislativa già completata o in via di realizzazione.
Abbiamo approvato la legge elettorale, autentica architrave del funzionamento della democrazia e del sistema politico. Ovviamente, per chi come me ne ha contestato e ne contesta radicalmente struttura e contenuto – tanto da non averla votata – questa non è necessariamente una buona notizia. Del resto, è proprio la legge elettorale approvata lo scorso anno che condiziona il giudizio di molti sulla riforma costituzionale. Tornerò tra poco sul punto.
Abbiamo approvato una legge che abolisce il finanziamento pubblico ai partiti, con la conversione di un decreto-legge approvato dal governo Letta al fine di superare l’inerzia parlamentare, dopo gli episodi di malcostume e i reati commessi con l’utilizzo improprio o illegale delle risorse del finanziamento. Faccio presente, al proposito, in particolare al M5S (che la scorsa settimana ha aperto una polemica sul punto), che il decreto sui partiti varato dal governo Letta prevedeva la pubblicità e la tracciabilità dei finanziamenti privati di non lieve entità, e che fu il Parlamento a modificare la norma anche in seguito a una richiesta del Garante per la privacy.
Sono sottoposte all’esame parlamentare le leggi sul conflitto di interessi e di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, sulla democraticità dei partiti. La prima, in particolare è stata già approvata dalla Camera e il governo si è impegnato a una sua rapida approvazione.
Siamo ora qui per approvare in via definitiva la riforma della costituzione repubblicana, e – nel mio caso – per affermare e spiegare le ragioni che ci spingono a votare favorevolmente a questo disegno di legge.
Le ragioni del voto favorevole, dunque.
Io capisco che da parte di tutti gli attori politici si compia un salto logico che, per quanto improprio, può essere considerato forse inevitabile: giudicare la riforma in base a chi la propone e la vota, in base alla contingenza politica del momento. E così, se si pensa ai poteri del governo, si pensa al presidente del consiglio pro-tempore; se si pensa allo statuto dell’opposizione, si pensa a chi attualmente è all’opposizione, e così via. Rileggere il dibattito che, nel Parlamento e nel Paese, si svolse intorno alla riforma del 2005 – ben riassunto nel volume di Leopoldo Elia “La Costituzione aggredita” – è in questo senso assai istruttivo. Da un lato le parti erano totalmente invertite, è noto. Dall’altro, se la responsabilità di una deliberazione referendaria nella quale si vota sulla Costituzione ma in realtà il criterio di scelta rischia di essere il favore o l’ostilità al presidente del Consiglio è da attribuire – affermava Elia – a chi “non avesse saputo produrre riforme rispettose dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale”, diciamo chiaramente che la portata, il contenuto di questa riforma e di quella del 2005, rispetto all’alterazione della forma di governo e della stessa forma di Stato, non sono minimamente comparabili.
Tuttavia, dobbiamo tutti ammettere che a questa “sovrapposizione” possono condurre errori che nel dibattito politico e parlamentare sono stati commessi sia dalle opposizioni sia dal governo e da noi della maggioranza.
La domanda che mi pongo, e che vorrei porre a quest’Aula è: “possiamo fare qualcosa per evitare questo rischio, questo destino”?
Io credo di sì. Credo che tutti dobbiamo distinguere i problemi, e riportare il dibattito sulla riforma costituzionale al suo contenuto. Non un voto pro o contro il PD o il suo segretario, non un voto sulla legge elettorale – che pure ha una sua rilevanza centrale – ma un giudizio sul contenuto di questa riforma.
E, se guardiamo al contenuto della riforma: può darsi che ci siano delle sbavature, delle imprecisioni. Ma è giusto dire la verità: riguardo alla forma di governo la riforma al limite è più debole di quanto sarebbe necessario: manca il rafforzamento del premier, sia con riferimento al voto di fiducia della Camera sia alla facoltà di sostituire i ministri. Ed è un peccato: forse proprio per aspetti legati alla contingenza politica non si è portata a compimento una riforma che, oltre a essere presente nel nostro programma elettorale, era stata prospettata fin dalla Commissione Bozzi – ove, al fine di realizzare «governi di legislatura», si proponeva di stabilire un «legame fiduciario diretto» tra presidente del Consiglio e Parlamento prima della formazione dei governo – e condivisa dal centrosinistra persino nei momenti di maggiore contrasto con la leadership berlusconiana, quale passaggio fondamentale per trasferire al cittadino le funzioni di “arbitro”. Cito per tutte la posizione di Andreatta, che nel 1996 sosteneva l’opportunità di un sistema nel quale “una coalizione presenti il suo candidato a premier prima della campagna elettorale così che la vittoria di un cartello sia associata al leader (…), per giungere a una “forma di cancellierato dove il premier può anche cambiare un ministro che non va”.
Vi sono altri aspetti che – magari perfettibili nella loro formulazione tecnica – non possono che essere condivisibili: dal superamento del bicameralismo paritario, con la giusta differenziazione della fonte di legittimazione – e dunque della modalità di elezione – tra senatori e deputati; alla rivisitazione delle competenze regionali, che trae le conseguenze dell’esperienza di un quindicennio di applicazione della riforma del titolo V, limitando la legislazione concorrente e riprendendo l’intuizione dossettiana di introdurre la competenza legislativa esclusiva dello Stato “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”, e non da ultimo introducendo una distinzione più netta tra regioni ordinarie e speciali, senza la quale effettivamente – come da molti sostenuto – queste ultime avrebbero avuto poca ragione di esistere, mentre le peculiari condizioni territoriali e storiche che le caratterizzano rendono del tutto opportuna la loro valorizzazione e il rafforzamento della loro autonomia.
Autonomie territoriali ed enti locali, d’altro canto, trovano finalmente una loro rappresentanza, rafforzata dall’espressione della volontà popolare, nel Senato della Repubblica, come sostenuto in numerosi progetti di riforma avanzati anche dal centrosinistra da molti anni. Infine, faccio riferimento agli interventi rivolti alla partecipazione popolare, dall’abbassamento della soglia per la validità dei referendum ai referendum propositivi e d’indirizzo.
Questi elementi, unitamente al fatto che questa riforma porta a compimento la missione con la quale siamo entrati – almeno la maggioranza di noi – in questo Parlamento, e alla quale abbiamo legato il destino e il “senso” di questa legislatura, mi fanno pensare che sia giusto esprimere un voto favorevole al disegno di legge di riforma della Costituzione sottoposto al nostro esame.
Tutto bene, dunque? Se andasse tutto bene ci sarebbe un dibattito sereno, nel Parlamento, tra gli studiosi, nel Paese, e non questo clima da “battaglia in campo aperto”. Siamo sicuri che sia nell’interesse di qualsiasi parte politica qui rappresentata, a soprattutto dell’Italia, approvare una riforma in un clima di ostilità così profonda, e affrontare con lo stesso spirito di divisione l’eventuale confronto referendario? Io credo di no, e credo che tutti si debba fare la propria parte perché si determinino condizioni di maggiore serenità, di dialogo e ascolto, di riconoscimento reciproco delle ragioni altrui. Sono, fra l’altro, le sole condizioni perché una riforma, se anche approvata, resista all’usura del tempo, produca i suoi effetti nei tempi lunghi, e non costituisca invece, da parte di chi non l’ha approvata, l’oggetto di una immediata volontà di abrogazione o di profonda revisione.
Vi sono, pertanto alcuni aspetti che meritano, in conclusione, di essere sottolineati, e che riguardano una serie di impegni che tutti – penso anzitutto a noi che approviamo la riforma e abbiamo maggiori responsabilità – dovremmo solennemente assumere.
Ne propongo alcuni. Il primo, ristabilire un dialogo con l’intera comunità degli studiosi, anche con quelli molto critici, ad esempio rispettando, anche quando non lo si dovesse condividere, il punto di vista di chi (penso a Ugo De Siervo) contesta se non la legittimità giuridica, certamente l’opportunità di un referendum promosso dalla maggioranza che approva la riforma, ed evitando personalizzazioni e confronti muscolari su un tema che riguarda la Carta che regola la convivenza civile degli Italiani.
In secondo luogo, fare ogni tentativo per abbassare il livello del conflitto tra i poteri dello Stato e compiere ogni tentativo per connettersi con lo stato d’animo dei cittadini: per questo, poiché la questione attiene anzitutto alla sua responsabilità, bene ha fatto il presidente del Consiglio a comprendere che in questo momento la priorità è contrastare e sconfiggere la corruzione che appare ai cittadini dilagante (un sondaggio compiuto dall’organo di stampa finanziato dal PD lo dimostra in modo allarmante), chiarendo che non vi è nessuna intenzione da parte del governo di approvare leggi bavaglio o di contrastare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Diciamolo ancor più chiaramente: i “politici” sono sottoposti all’azione della magistratura almeno quanto i cittadini che non hanno responsabilità politiche o istituzionali, e i magistrati che indagano sul malaffare che sembra aggredire sempre più voracemente le istituzioni, minandone la credibilità, sono i principali alleati della “politica” e delle istituzioni.
In terzo luogo, abbiamo mantenuto, su proposta dell’Esecutivo, l’attuale forma di governo con riferimento ai poteri del Premier, alle prerogative dei ministri e alla collegialità del Consiglio dei Ministri: si deve vigilare perché questo equilibrio sia rispettato, e deve essere sempre più chiaro, anche in questa fase contingente, “chi decide che cosa”.
Quarto, occorre assumere l’impegno a una rapida approvazione della legge costituzionale che, innovando l’articolo 71, rende effettivi gli strumenti di partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche.
Infine, il punto a mio avviso più importante. Questa riforma costituzionale non susciterebbe dubbi e obiezioni così forti se non si accompagnasse a una legge elettorale che rischia di determinare un mutamento sostanziale della forma di governo. Una legge che, in conseguenza dei meccanismi di elezione dei deputati, rende debolissimo il Parlamento, anziché rafforzarlo; che mantiene limitatissima la capacità dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti; che, alterando la rappresentanza e “forzando” la struttura del sistema politico, non è affatto detto che porti a una maggiore stabilità di governo, se solo abbiamo presenti le mutevoli composizioni dei gruppi parlamentari e il ritorno in auge (soprattutto al Senato, ma non solo) di una parola – trasformismo – che pensavamo confinata nei manuali di storia. Una legge sulla quale pendono forti dubbi di legittimità costituzionale, e che dunque penso sia interesse di tutti chiedere che sia sottoposta al vaglio preventivo della Consulta con i nuovi strumenti introdotti da questa riforma (cosa che personalmente farò). Una legge che deve essere corretta, come minimo con riferimento al rafforzamento del potere dei cittadini di scegliere direttamente i deputati, correggendo l’abnorme percentuale dei posti bloccati o introducendo per legge – come prevede una proposta che ho presentato insieme a numerosi deputati del PD – le elezioni primarie per le posizioni in lista bloccate.
In sintesi, stiamo approvando una buona riforma. Ora sta alla responsabilità della politica farne uno strumento stabile e duraturo di miglioramento dell’efficienza e della capacità di decidere della nostra democrazia, senza comprimere gli spazi di rappresentanza e il pluralismo assolutamente vitali per la libertà e la democrazia in Italia e per lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese.