Una riforma statutaria per tenere il passo di Italia e Europa
Presidente, colleghi e rappresentanti della Giunta, mi pare di poter dire che questa sia la prima legge di sistema, di rilievo ordina mentale, che questo Consiglio, in questa legislatura, sta esaminando.
Fatta eccezione per questa legge, però, non possiamo non notare come sia davvero preoccupante l’assenza di una capacità propulsiva da parte della maggioranza di questa Giunta. È, infatti, proprio nella funzione di riproduzione politica, anche nell’attività legislativa, che dovrebbe rientrare una capacità di visione di riforme che devono essere generali e di sistema.
Speriamo che questo sia un primo passo perché di temi da affrontare ne abbiamo parecchi. E non vorrei che ci attardassimo a ripetere che dobbiamo modificare lo Statuto, anche perché, nel frattempo, nella scorsa legislatura, siamo riusciti a non cogliere questa opportunità, e non certo per una nostra responsabilità!
Nella scorsa legislatura, e ne siamo consapevoli tutti, credo, abbiamo perso la preziosa opportunità di poter condividere, in un clima di maggiore cooperazione e responsabilità istituzionale, la legge statutaria.
Ci troviamo in una situazione in cui l’architrave del sistema, Statuto e legge statutaria, è debolissimo e, soprattutto, richiede aggiornamenti urgenti senza i quali noi rimarremo fuori dal dibattito contemporaneo sull’Italia, che si avvia a diventare federale, e su un’Europa che deve necessariamente diventare politica.
È una responsabilità di tutti noi, ma prima di tutto della Giunta, portare avanti delle proposte che siano poi capaci di affrontare queste situazioni. E devo anche dire che il clima di minore tensione, che per molti talvolta sfocia in disinteresse, che accompagna le discussioni su tematiche del genere è anche, ahimè, un segnale del fatto che i temi europei non sono al centro della nostra agenda politica e quindi, come dire, ci dividano ben poco: quando i temi sono politicamente rilevanti è anche giusto e ragionevole che si eserciti una sana dialettica politica.
Gli strumenti che proponiamo con questa legge permettono, grazie alla relazione tra autonomie locali, Consiglio e Esecutivo, di cominciare a entrare nel merito delle politiche che sono governate da processi europei. Io mi auguro, dico un paradosso, che questi strumenti ci portino anche a dividerci, perché ciò significherebbe che parliamo di qualcosa di più concreto.
Questa legge è stata già descritta dai colleghi che mi hanno preceduto, il relatore è un proponente delle proposte che sono poi state esaminate congiuntamente dalla Commissione, per cui non voglio entrare più di tanto nel merito ma provare a dare qualche chiave di lettura dal mio, dal nostro punto di vista.
Una prima chiave di lettura è il contesto nel quale avviene questa discussione e questo nostro tentativo di intervenire in materia: è un contesto che percepiamo tutti essere di straordinario cambiamento, una straordinaria sfida per le istituzioni a livello europeo e a livello italiano, e se noi a questa sfida non arriviamo con delle nostre idee solide rischiamo di perdere questa partita senza neppure giocarla.
Sappiamo che in Italia non è uno slogan dire che si sta parlando di un federalismo fatto su misura di chi lo ha portato all’attenzione politica del Paese. La sola cosa che tutti ricordiamo, infatti, è che il federalismo fiscale è il costo standard delle prestazioni e ci dimentichiamo, da un lato, di quali siano i diritti che devono essere garantiti a tutti cittadini, in qualunque parte del nostro Paese, e dall’altro uno dei criterio che vorrei introducessimo, e cioè il divario standard, che deve essere colmato in infrastrutture, in sviluppo e in molte delle dotazioni che sono poi la base per lo sviluppo dell’economia.
Questa legge, invece – l’altra sfida è quella dell’Europa – è una legge che fa parte del lavoro che stanno facendo i Parlamenti nazionali, le organizzazioni nazionali a livello europeo. Tutti sappiamo e ci rendiamo conto che l’Europa, in questa drammatica crisi internazionale, non sta giocando il ruolo politico che dovrebbe giocare, dal momento che non è capace di avere una sua soggettività politica. E ciò deriva dal rapporto corretto tra elettori e rappresentanti istituzionali a livello europeo. E allora, siccome non possiamo non tener conto della complicazione che deriva dalla mancanza di arene politiche unitarie (non parliamo la stessa lingua, abbiamo opinioni pubbliche diverse, non leggiamo gli stessi giornali ), il Trattato di Lisbona, che non è né rivoluzionario né è una costituzione, e che a molti di noi non piace perché siamo nostalgici di un’Europa che non c’è stata per molti anni, prova però a darci un compito: integrare le attività dei Parlamenti (anche noi siamo un pezzo del sistema parlamentare italiano) e ridefinire i rapporti, cosa che sta avvenendo anche in Italia tra Regioni e legislazione nazionale, tra Esecutivi e Assemblee parlamentari. Noi, cioè, dobbiamo prenderci il ruolo – ed è un ruolo che ci prendiamo solo se siamo competenti e capaci di esercitarlo autorevolmente – di interlocutori, di rappresentanti dei cittadini nella legittimazione democratica delle politiche e delle attività che si svolgono a livello europeo.
Se ci sarà questa legittimazione democratica, l’Europa non sarà né una necessità né una costrizione ma sarà un soggetto politico, che è quello di cui abbiamo bisogno perché si possa parlare in questa realtà con una voce forte e autorevole, altrimenti non si viene neppure ascoltati.
In qualche modo il sistema di governo multilivello che ha governato questi processi negli ultimi decenni passa in questo momento dall’ essere un sistema che vede le relazioni solo tra Esecutivi, e talvolta tra Esecutivi che non sono neppure dotati dalla legittimazione democratica pari a quella che hanno quelli nazionali (mi riferisco alla Commissione europea), a un meccanismo che mette in circolo anche i Parlamenti.
Tutti gli atti di programmazione comunitaria, che poi in fondo in Italia sono stati, a partire dalla fine degli ‘80, la principale fonte di utilizzo di risorse pubbliche e quindi di definizione delle politiche di sviluppo (e la cosa ci riguarda molto da vicino), passano attraverso meccanismi elaborativi che vedono i Parlamenti, al più, come spettatori.
Il meccanismo è: Governo-Commissione (il Consiglio decide, il Consiglio fa le leggi nel meccanismo comunitario), però poi il processo di elaborazione delle politiche è un processo di triangolazione Esecutivi regionali, Esecutivo nazionale e Commissione europea, anche se spesso non in quest’ordine. Il compito di fronte al quale ci siamo posti e che stiamo cercando di affrontare, anche con questa legge, è proprio quello di immettere le assemblee rappresentative dentro questo processo. E per far questo ci dobbiamo dotare di strumenti che ci devono consentire, nel Consiglio regionale, di essere dei bravi scolari dell’Unione Europea (non lo siamo stati, e l’Italia ha sempre avuto bisogno di un maestro severo, del vincolo esterno. Noi non lo siamo perché abitualmente facciamo le leggi non sapendo, o facendo finta di non sapere, che esiste quel vincolo che è un vincolo politico ed è un vincolo legislativo). Se comprendiamo, invece, che possiamo intervenire nel processo legislativo, dicendo all’Unione Europea che, rispetto ai nostri diritti e rispetto ai nostri interessi di comunità nazionale, nel nostro caso regionale, il principio di sussidiarietà e il principio di proporzionalità devono delimitare entro quanto è necessario per il raggiungimento degli effetti l’intervento della legislazione e delle politiche comunitarie, staremo facendo un passo in avanti che ci porterà a essere attivi all’interno di quel processo. Per far questo dobbiamo prima capire che cosa vogliamo, e in qualche modo questa è la cosa che questa legge e questa condizione politica, ci impone di fare, anche se non so se siamo in grado di farlo.
Ci obbliga a ridefinire e a migliorare alcuni aspetti della nostra organizzazione e della nostra attività e a ridefinire delle nostre priorità. Parlo innanzitutto di quegli aspetti che sono apparentemente di minore impatto ma che per me sono fondamentali perché possono trasferire nella nostra qualità di lavoro, di legislazione, di organizzazione, dei principi positivi, se non necessari: la qualità della legislazione. Qualità della legislazione significa sapere, ad esempio, che, come fa l’Italia dal 1989 una volta all’anno, ci dobbiamo rivedere e dobbiamo adeguare il nostro ordinamento ai dettami della legislazione comunitaria; che dobbiamo evitare a noi stessi e ai soggetti che ne possono beneficiare, o che possono essere interessati da provvedimenti legislativi, l’ onere di dover vivere con la spada di Damocle di un’infrazione comunitaria, perché prevediamo che la legislazione regionale che adottiamo sia sottoposta ad una sospensione sostanzialmente prima che non siano approvati i provvedimenti di notifica rispetto al regime degli aiuti di Stato.
Sono due questioni che sembrano di poco conto ma pensiamo che in questo modo, e prevedendo che sia anche scritto in una legge, l’iniziativa della Giunta, per esempio, si potrebbe esercitare con maggiore rigore. Anche in casi di necessità ed urgenza ci sarebbero leggi specifiche per adeguare il nostro ordinamento alle norme comunitarie. Magari non saremo sempre incapaci di adottare anche normative di secondo livello che possono essere più adeguate alla nostra condizione. Abbiamo una qualità della legislazione migliore, lo sappiamo noi e lo sanno le imprese e i cittadini quali sono le norme che derivano dal sistema comunitario e che disciplinano le loro attività.
Stabiliamo un modo migliore di organizzarci nei rapporti tra Giunta e Consiglio, stabiliamo come Giunta e Consiglio debbano interagire nella definizione degli atti di programmazione, dei meccanismi di controllo sulla programmazione delle risorse comunitarie; noi siamo sostanzialmente di fronte a una stagione che si sta per chiudere, quella che, dalla fine degli anni 90, ha definito le politiche regionali. Ho l’impressione, però, che non abbiamo ancora compreso come il quadro unitario della programmazione su scala regionale possa interessare in maniera così decisiva le politiche che poi realizza la Regione.
Questo Consiglio regionale ha il compito e il dovere di interessarsene e di dare degli indirizzi all’attività della Giunta, perché altrimenti quel triangolo, appunto, che poi trova una sede di confronto ugualmente fuori dal meccanismo parlamentare nella Conferenza Stato – regioni continuerà a essere chiuso e a non respirare all’interno delle aule parlamentari.
Lo facciamo prevedendo che dobbiamo organizzarci meglio. Non so se sia necessario scrivere in legge che dobbiamo cambiare i nostri regolamenti, so che è necessario cambiare le nostre teste e cambiare l’organizzazione delle nostre amministrazioni, di questo Consiglio regionale e dell’amministrazione della Regione.
È necessaria una norma alla quale io tengo particolarmente: che si promuova, negli anni, una conoscenza pratica effettiva, da parte delle decine di nostri funzionari pubblici, di come funziona quel livello di amministrazione per permeare anche la nostra amministrazione di quei metodi di lavoro e di quelle regole. Non utilizzandola, come spesso accade, per fare qualche viaggio premio, per occupare inutilmente un ufficio a Bruxelles, ma per andare a lavorare lì, a faticare, a imparare e a trasferire conoscenze.
Lo facciamo costringendoci, non perché non lo vogliamo, ma perché per il momento non lo si fa, a parlare di Europa e di attività internazionali nella sessione europea che dovremo tenere ogni anno per approvare la legge europea e anche per definire le nostre priorità programmatiche in materia di politiche europee e di politiche internazionali.
Ho appreso dai giornali che il Presidente della Regione è un autorevole rappresentante della nostra Regione nel Comitato delle regioni, non mi risulta che ci abbia mai raccontato che cosa rappresenta lì, è un suo limite, una sua responsabilità, come quella di essere assente ancora una volta oggi. È, invece, un nostro limite collettivo il ritardo accumulato da questa istituzione rappresentativa nel non occuparsi di questi temi. Ritardo che stiamo cercando, adesso, di colmare.
Il modo in cui stiamo affrontando l’essere un’autorità di gestione di un importante programma comunitario legato alla definizione e allo sviluppo delle relazioni euro – mediterranee è un limite enorme che la nostra Regione pagherà se non avremo la capacità di fare qualcosa che rimanga nei legami, nelle relazioni e nelle istituzioni che governano i processi di relazione al livello mediterraneo. Non lo stiamo facendo anche per un’assenza di politica.
Se è possibile, dunque, come politica sarda nel suo complesso, dobbiamo cogliere da questa discussione e da questa legge l’opportunità di migliorare alcuni aspetti organizzativi e gestionali della nostra modalità di lavoro e di trarre spunto da questa miglior organizzazione, da questa ridefinizione delle nostre priorità, da questo modo di prendere i problemi per la testa e non quando ci piombano in testa, una possibilità per capire qual sia la nostra strategia fondamentale su un dibattito che stiamo subendo. Dobbiamo capire che, faccio un esempio per comprenderci e senza voler entrare nel merito, nella scorsa legislatura quando abbiamo fatto la Regione, le organizzazioni sociali, le organizzazioni politiche, una rivendicazione forte nei confronti dello Stato poteva essere una cosa giusta o sbagliata. (Vi prego non entriamo nel merito perché abbiamo discusso tanto, io ho le mie idee per cui è stata una grande cosa l’intesa Stato Regione sulle entrate, ma sapevamo che cosa volevamo, quella è la cosa decisiva e siamo riusciti a conseguire un grande risultato nella buona fede di tutti quelli che pensavano che lo fosse, quelli che pensavano che lo fosse meno).
La mia preoccupazione è che, in questa fase storica, noi non sappiamo cosa vogliamo e che possiamo trovarci nella singolare situazione per cui non beneficiamo di quelle norme perché, non ho capito, se quest’anno i trasferimenti dello Stato ci sono e di quale entità siano e se prevedono quelle risorse, quando arriveranno. È una legge, è scritta, si deve applicare e invece non è scontato che sia così e l’applicazione del federalismo fiscale che ci costringe, come dicevo prima, che ci costringerà probabilmente a caricarci di oneri, per la nostra organizzazione, per le efficienza del nostro sistema difficilmente sostenibili. Dobbiamo introdurre dei principi che ci indicano il nostro ritardo, che sono poi alla base di quella trattativa con lo Stato, sia in termini infrastrutturali che di condizioni derivanti dalla nostra insularità, ritardo che deve essere chiaramente quantificato e affidato alla nostra responsabilità e ad una valutazione tanto severa quanto quella prevista dalle norme sul federalismo fiscale. Però noi non stiamo ponendo questo programma nel dibattito nazionale, noi non ci siamo in quel dibattito. Dobbiamo capire, però, che adesso non possiamo permettercelo. Tra l’altro, siamo anche usciti dall’obiettiva convergenza perché abbiamo uno livello di sviluppo leggermente più alto rispetto ad alcune regioni italiane. Dobbiamo capire che tutti, non solo chi sta dalla parte politica del governo, dobbiamo pretendere che l’insularità da parolina scritta nei trattati comunitari diventi una politica, e che venga, cioè, poi trasformata come tutte le norme sulla coesione economica e sociale. Ci sono dei principi e poi si fanno dei regolamenti.
Nei regolamenti si sono dimenticati di fare una cosa che avrebbe riguardato solo Italia e Sicilia, perché tanto la Sicilia è coperta comunque dalle norme dell’obiettivo convergenza, la Sardegna no, il governo è andato a trattare e si è dimenticato della Sardegna. Cerchiamo di capire quali sono le nostre priorità e cerchiamo di sostenerle insieme.
Troppe volte in questi mesi sta accadendo che questa Giunta, debolissima nei confronti del governo, riceva indicazioni molto meno che corrette e legittime rispetto a ciò che deve fare, io vorrei che ci rappresentasse, perché rappresentasse questa istituzione e la Sardegna nel suo complesso per delle rivendicazioni che sono davvero determinanti in un passaggio decisivo come quello che stiamo affrontando nel dibattito nazionale ed europeo. Vi ringrazio.