Enrico Letta: «Se Berlusconi va a casa nessun governissimo»

Per anni ha girato in lungo e largo il nord del paese insieme a Pierluigi Bersani a caccia di consensi nella tana del lupo, il popolo delle partite iva, ma si è imbevuto fin da piccolo della stessa cultura politica di Dario Franceschini, quella del popolarismo e del cattolicesimo democratico. Fatto sta che oggi Enrico Letta si è schierato a fianco di un socialdemocratico come Bersani a dimostrazione che le vecchie appartenenze non contano più molto nel Pd. Ma due cose per Letta devono essere ben chiare: quale sia il leader eletto a ottobre dai democratici, il candidato premier nella futura sfida con la destra andrà scelto con primarie di coalizione insieme agli alleati. Secondo, se Berlusconi cadesse il Pdl dovrebbe scegliersi un altro premier e il «Pd non dovrebbe accettare scorciatoie perchè la pagherebbe cara».

Perchè Enrico Letta ha scelto Bersani e non il suo vecchio compagno di partito, Franceschini?

«Perchè le europee e la situazione che stiamo vivendo ci consegnano un’ultima speranza, quella di far partire col piede giusto l’idea del Pd dopo gli errori di questi venti mesi che hanno fatto quasi fallire il progetto. Quali errori? Aver creduto che sfidare Berlusconi sul suo terreno, cioè il bipartitismo, potesse portare ad un’affermazione del centrosinistra. E perchè vi sia un successo di questa idea ci deve essere la mescolanza vera, non i ticket appiccicaticci. E a proposito del pressing su Chiamparino, voglio dire che una sua valorizzazione non può che far bene al partito».

Come spiegherebbe ad un giovane di vent’anni la differenza in termini di contenuti tra i due candidati in campo?

«Bersani, anche solo per il suo Dna, interpreta meglio il fatto che le priorità sono il lavoro e la società, cioè le risposte alla crisi. E Pierluigi ha l’esperienza e la saggezza di essere quello che i francesi chiamerebbero un ?rassembleur? di diverse esperienze, per far sentire ognuno a casa. Inoltre esprime bene l’idea che la politica debba essere concretezza, un tema su cui gli italiani in questi anni ci hanno bocciato».

Le tante richieste di rinviare il congresso e le polemiche sulle primarie sono legate o no al problema che il futuro leader del Pd non potrà essere automaticamente il candidato premier nella prossima sfida con la destra?

«Noi dobbiamo costruire un’alleanza e quindi l’idea del nostro statuto che il nostro segretario sia automaticamente il candidato premier è fallita. E dunque il candidato lo dovremo scegliere per forza con i nostri alleati attraverso primarie di coalizione. Ma questo non vuol dire che io non creda nello strumento delle primarie anche per eleggere il nostro leader».

In altre parole sta dicendo che a guidare la sfida al Pdl potrebbe essere Pierferdinando Casini?

«E’ assolutamente prematuro parlarne ora».

Se dovesse cadere Berlusconi, il Pd sarebbe pronto ad andare a votare presentandosi al paese come alternativa credibile?

«Credo sia cominciato il declino finale del premier e le conferme vengono da quanto detto da Tremonti che ha dovuto negare governi tecnici; e dal fatto stesso che Berlusconi si sia infilato in un vertice internazionale a Corfù dove non era stato invitato. Penso sarebbe molto utile se il centrodestra tentasse di terminare la legislatura con un altro premier senza far nascere governi tecnici. Questo consentirebbe la fine dell’anomalia Berlusconi, stabilizzando la maggioranza su una linea ?normale? e a noi di costruire un’alleanza con l’Udc e altre forze».

E chi vede meglio come premier? Fini, Tremonti o Gianni Letta?

«Sarebbero loro a decidere in quel caso. Ma sull’ipotesi di un governo tecnico voglio aggiungere un appello: troppe volte abbiamo tentato di battere Berlusconi con scorciatoie e se rifacessimo questo errore lo pagheremmo caro. Oggi gli elettori vedrebbero solo il collasso di Berlusconi e non il Pd come alternativa di governo. La stagione congressuale ci farà uscire dai nostri problemi, facendoci costruire un’identità nuova che non sia solo la sovrapposizione delle due foto di Moro e Berlinguer, cioè l’idea che il Pd sia solo il compromesso storico trent’anni dopo».

A proposito di Tremonti, voi avete bocciato il decreto del governo, ma se la sentirebbe di bocciare tout court la gestione della crisi praticata in questi mesi dal ministro del Tesoro?

«Di fronte ad un governo da insufficienza piena, sicuramente Tremonti è l’unico all’altezza della situazione. Ma questo ultimo provvedimento è fuori tempo massimo e non affronta il fatto che a settembre finisce la cassa integrazione. Confindustria, sindacati, piccole imprese, Draghi e l’opposizione non a caso chiedevano riforme strutturali degli ammortizzatori sociali che non sono state varate. E voglio esser chiaro: il Pd che crescerà nel futuro deve parlare ai 4 milioni di piccoli imprenditori che sono tentati di chiudere in silenzio. Il profilo del Pd che dovremo costruire parte dalla riconciliazione con tre mestieri umiliati: il piccolo imprenditore,l’insegnante e il funzionario pubblico».

Un’ultima domanda: è possibile una sua uscita dal Pd verso l’Udc se Bersani dovesse perdere il congresso?

«No, non affronto un congresso con l’idea che se perdo me ne vado, ma lo affronto con l’idea di vincerlo».