Il caso Azzollini, il Pd e la legalità. Sono riusciti a cambiarci?

Il caso Azzollini, il Pd e la legalità. Sono riusciti a cambiarci?

La vicenda Azzollini è l’ennesimo atto di una deriva ormai sotto gli occhi di tutti. Quella di un Pd che non ha un’idea chiara sui temi fondamentali dell’Italia (per non parlare di Europa). Insegue gli eventi, cercando a posteriori una giustificazione o un rimedio a comportamenti contraddittori o sbagliati (è il caso delle pur ragionevoli considerazioni espresse poche ore fa dal ministro Orlando). Nelle (rare) occasioni in cui prova a definirla, questa idea è – per citare un memorabile Corrado Guzzanti – “sbagliata”.

Il caso Azzollini si rappresenta in tre atti.

Atto primo: la certezza granitica. È quella del presidente Matteo Orfini che, senza lasciar alcun margine al dubbio, preannunciava che il sì all’arresto sarebbe stato “inevitabile”. (In effetti, il peso di Orfini sulle scelte del Pd era già emerso chiaramente nella vicenda De Gennaro). Così, i componenti Pd della Giunta per le autorizzazioni, certamente dopo aver letto attentamente gli atti, votano (tutti) a favore dell’arresto.

Atto secondo: il ripensamento. Leggi e rileggi, sorge qualche dubbio. Cosa sia cambiato non è chiaro, ma si arriva alla libertà di coscienza. Ne consegue il voto di circa i due terzi del gruppo contro gli arresti domiciliari di Azzollini, cui segue il tragicomico balletto delle dichiarazioni concomitanti – e contrastanti – dei due vicesegretari del Pd (dopo segretario e presidente, i massimi dirigenti del partito).

Atto terzo: il ribaltone. Poche ore dopo aver definito il voto, appunto, “di coscienza”, e dunque privo di rilevanza politica (ed eventualmente determinato dalle mutate esigenze cautelari), oplà!, con agile balzo il premier-segretario afferma lapidario: “non siamo i passacarte della procura di Trani” (in realtà, come sa anche una matricola di giurisprudenza, la misura cautelare è disposta da un giudice, e in questo caso oltre al GIP si era pronunciato anche il Tribunale del riesame; dettagli che forse avrebbero minato l’efficacia la rappresentazione). Seguono applausi festanti e “goduriosi” da parte di chi vorrebbe che il Pd si liberasse delle “catene della sinistra”. Catene che viene da presumere non siano altro che le fondamenta dello stato di diritto – dall’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge al principio di legalità – le quali in passato hanno evidentemente corroso la limpidezza dell’azione politica della sinistra, che per anni ha incredibilmente osato sostenere che la legge dovesse applicarsi persino a Silvio Berlusconi. Dunque via l’antiberlusconismo, via il “giustizialismo”, e, zac!, ecco risolto il problema della “sinistra antipatica”.

Ma cosa hanno sostenuto i senatori hanno votato contro l’arresto? Prendo in esame la posizione che considero più autorevole e lontana dal gioco politico. L’ha espressaLuigi Manconi:

[…] ogni singolo parlamentare ha il dovere di esercitare questa funzione nell’assoluto rispetto delle norme penali e costituzionali. E proprio esse impongono di ritenere sproporzionata e irragionevole la misura degli arresti domiciliari in un caso, come questo, in cui manca ogni “esigenza cautelare” (pericolo di fuga dell’indagato, inquinamento probatorio, rischio di reiterazione del reato).”

Nella traduzione di Staino: “Azzollini andrà in galera solo dopo la condanna”. “Vedi come siamo ridotti in Italia? Devi essere parlamentare per avere una giustizia normale”.

Una posizione chiarissima, ma sbagliata: la valutazione del Parlamento, infatti, non dovrebbe entrare nel merito della sussistenza delle ragioni cautelari (o del loro mutamento) come tali, bensì limitarsi a valutare se il provvedimento a carico del parlamentare è stato adottato nei suoi confronti, in quanto parlamentare, con intento persecutorio o meno. Tutto qui. Se la giustizia non è “normale”, noi parlamentari dobbiamo operare per renderla tale per tutti i cittadini. Questo è il nostro mestiere. Nel frattempo il “livello di normalità” non può essere diverso a seconda che a giudicare siano i tribunali o i colleghi a scrutinio segreto.

Due considerazioni finali. La prima riguarda la coerenza: se essa è veramente “la virtù degli imbecilli” (Prezzolini), il Pd è popolato di (e soprattutto guidato da) giganti del pensiero. Non credo che tutti noi deputati, chiamati da una decisione del partito a votare favorevolmente (e a scrutinio palese) a favore dell’arresto del deputato Genovese, avessimo letto tutte le carte processuali. Ma le elezioni europee incombevano, e occorreva dare un segnale. Si trattò, inequivocabilmente, di una scelta politica, come lo è stata quella – di segno opposto – adottata nel caso Azzollini.

La seconda considerazione riguarda l’idea di fondo, la direzione di marcia. Oltre ai prevedibili foglianti festanti e “responsabili” Pd ossequianti, gli osservatori più autorevoli hanno constatato lo scarto deciso verso una ridefinizione dell’identità del Pd renziano. La domanda è semplice: il Pd – chi guida il Pd – crede seriamente alla tesi delle “catene della sinistra”? Il Pd – chi guida il Pd – considera dunque alcuni valori fondanti della nostra cultura civile, prima ancora che politica, tabù dai quali liberarsi?

Esprimo la mia opinione con la massima nettezza: specie se riferita al rapporto tra politica e giustizia, si tratta di una tesi assurda, sbagliata, autolesionista per l’Italia, oltre che per il Pd.

L’Italia, anche in seguito a errori della sinistra di allora, ha visto prevalere, nel passaggio infausto tra prima e seconda Repubblica, una destra sostanzialmente anti-stato e a-legale. Anziché un confronto tra riformisti di centrosinistra e un centrodestra “europeo”, quel passaggio determinò, insieme al collasso del sistema dei partiti, la “scalata” al sistema politico da parte di un imprenditore con molti mezzi (di pressione e di persuasione, oltre che economici) e pochi scrupoli. Il cleavage sul quale si articolò la dinamica politica fu inevitabilmente legato ai temi della legalità e dello stato di diritto più che su qualsiasi altro. È stata una “catena”? No, è stato, al limite, un vincolo necessitato. E contrastare in tutti i modi legittimi il tentativo di alterare la separazione dei poteri e, attraverso il pluralismo dell’informazione, la libertà politica, è stato anzitutto un dovere politico e civile. In quell’Italia, l’impostazione intransigente sulla legalità è stata la sola ad aver consentito alcune scelte fondamentali, come la salvaguardia dei conti pubblici, e la sostanziale tenuta dello stato di diritto.

Il problema dell’Italia, ora, è permeare della cultura della legalità tutti gli schieramenti politici. Non, all’opposto, prendere sul serio le provocazioni pseudointellettuali di chi ritiene che i peccati dai quali redimersi non siano l’illegalità e il clientelismo, bensì il “moralismo” e il rigore etico.

Tutto ciò non significa affatto che la politica non debba essere autonoma dalla magistratura: un effettivo equilibrio tra i poteri è necessario per il corretto funzionamento della democrazia. Che però può realizzarsi solo risolvendo i nodi strutturali del ventennio berlusconiano: disciplina del conflitto di interessi, pluralismo dell’informazione, lotta feroce all’illegalità, alla corruzione e al clientelismo, all’intermediazione melmosa tra politica, istituzioni ed economia, sono gli obiettivi che dovrebbero accomunare tutte le forze politiche e precedere qualsiasi scelta di merito e di schieramento.

Quelle stesse scelte ci riportano alla domanda iniziale: la legalità è una “catena” che ci stritola? Se il Partito Democratico – chi lo guida – dà l’impressione che la riforma del sistema radiotelevisivo miri essenzialmente a aumentare il controllo del governo sulla televisione di Stato; ostenta indifferenza quando un candidato nelle liste di un proprio presidente di Regione pochi giorni dopo le elezioni viene arrestato per camorra e legami coi casalesi; accoglie a braccia aperte i senatori guidati da un pluri-rinviato a giudizio o orgogliosamente legati all’ex parlamentare Cosentino, e quindi, ancora, ai casalesi (Cosentino brav’uomo, Saviano l’unico arricchito con la camorra, una perla del prezioso alleato), la risposta comincia a essere chiara. La esprime mirabilmente il verso del mio poeta di riferimento, che spero meriti ancora un punto interrogativo finale: sono riusciti a cambiarci / ci son riusciti lo sai.