Ringiovanire le università

Sul tema della riforma universitaria pubblichiamo un intervento di Marco Meloni, responsabile università e ricerca della segreteria nazionale Pd.

Il professor Di Chiara, nel suo intervento del 26 luglio “Docenti in pensione, il rischio di una riforma”, esprimeva forti perplessità sulla proposta, avanzata dal Pd e sostenuta in un’intervista dal ministro Gelmini, di portare l’età di pensionamento dei docenti universitari a 65 anni. Proposta che, come è noto, non è stata approvata dal Senato ma che merita, comunque, alcune precisazioni. La prima è che l’idea – condivisibile o meno – continua a essere sostenuta solo dal Pd: il governo ha confermato la sua contrarietà, già espressa in Commissione. Quanto al ministro, ha dato un’ennesima dimostrazione della distanza che corre tra le sue parole e i fatti.

Abbiamo comunque conseguito un risultato: rilanciare il dibattito sulla questione generazionale, un’emergenza per il nostro Paese, nell’università come in altri settori. In Italia abbiamo la classe accademica più anziana del mondo occidentale, è un dato oggettivo. I docenti ultrasessantenni sono ben oltre il 20%; in Gran Bretagna, Francia e Germania oscillano tra il 5 e il 10%. Per converso, da noi gli under 34 sono meno del 5% (Francia 22%, Gran Bretagna 27%, Germania oltre il 30%). Oggi, l’università può essere a pieno titolo considerata un simbolo delle difficoltà di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e, più in generale, nella vita adulta.

Il problema esiste, e deve essere affrontato. Lo hanno detto negli anni recenti molti “maestri”, da Eco a Settis («qualità della ricerca e degli studi e ricambio generazionale nella docenza sono problemi che non stiamo affrontando, che si vanno incancrenendo a ogni giorno che passa», scriveva nel 2007). E non è un caso che la proposta sia stata presentata dal professor Livi Bacci, demografo e ora senatore del Pd, che al tema generazionale ha dedicato il saggio “Avanti Giovani, alla riscossa” (Il Mulino, 2009).

Nel merito, la proposta – che in vista del passaggio alla Camera continueremo ad approfondire – porta l’età di pensionamento a 65 anni, come nel resto d’Europa, fatto salvo il periodo contributivo di 40 anni e l’aumento dell’età pensionabile. I docenti in pensione, in seguito alla valutazione, potranno svolgere – con specifici contratti – attività didattiche e di ricerca. E tutte le risorse liberate saranno destinate all’assunzione di nuovi docenti, con lo sblocco del turn-over. Vorremmo adeguare agli standard europei l’età media del corpo docente, equiparando, oltre all’età di pensionamento, quella di accesso alla carriera, con regole chiare e selettive e percorsi più rapidi. Non mi pare un obiettivo così rivoluzionario.

Né è l’unico che si pone il Pd. Abbiamo chiesto una riforma più incisiva e risorse adeguate. Invece, mentre gli Atenei sono al collasso, il testo approvato dal Senato mira a stabilizzare i tagli – quasi il 20% in tre anni – a un sistema su cui investiamo poco più della metà della media Ue; comprime l’autonomia degli Atenei; non prevede alcuna misura per gli studenti meritevoli ancorché privi di mezzi, come vuole la Costituzione; non apre spazi ai giovani ricercatori (le nostre proposte sul reclutamento sono state bocciate); non riduce il precariato, che chiediamo di abolire col contratto unico di ricerca. In ogni caso, una riforma inattuabile perché priva di risorse, affidate ai generici impegni di un governo a cui non si può più credere, perché dalla sua nascita fino ad ora, nel momento del suo fallimento, ha dimostrato di non credere nell’università e nella ricerca pubblica.