Una riforma necessaria, una legge sbagliata

Investire in università e ricerca è una questione decisiva per il destino dell’Italia. Come dimostrano numerose statistiche, siamo indietro rispetto alla media Ue/Ocse per numero di laureati, dottori di ricerca e ricercatori, investimenti per studente, rapporto docenti/studenti, internazionalizzazione.

D’altra parte investiamo in istruzione universitaria poco più della metà della media europea (0,8% del Pil, contro 1,3%). Investire in università, nell’Italia di oggi, potrebbe significare da un lato favorire la crescita economica, e dall’altro riavviare la mobilità sociale. Invece, l’università è il simbolo di un Paese bloccato, nel quale cresce la percezione che il futuro dipenda da valori ben diversi dalla qualificazione acquisita con lo studio.

Sono dunque necessari investimenti. Ma non solo. Il sistema universitario italiano ha bisogno di un intervento riformatore, capace di rendere il sistema più equo ed efficiente, di attuare il principio costituzionale del diritto allo studio per i meritevoli “ancorché privi di mezzi”, di consentire ai migliori talenti di entrare nella carriera università con regole chiare e percorsi rapidi.

Sarebbe auspicabile che questi interventi fossero la conseguenza di un discorso pubblico che impegni il Paese nel suo complesso. Così, almeno finora, non è stato.

Solo ora, la giusta protesta dei ricercatori e la generale condizione di sofferenza economica dell’università stanno facendo emergere il tema, finora confinato in un dibattito tra addetti ai lavori.

In effetti, proprio le questioni economiche rappresentano al meglio i limiti della proposta di riforma del governo. Il ddl Gelmini, infatti, è un intervento stretto tra due manovre di finanza pubblica, quella del 2008 e quella attuale, che hanno ridotto le risorse ordinarie di circa 1,4 miliardi in tre anni. Con molti atenei privi, già nei prossimi mesi, delle risorse per le spese obbligatorie, e quasi un miliardo necessario per il 2011. Una scelta in netta controtendenza rispetto a Germania e Francia, le quali – pur impegnate in severe manovre economiche – concentrano gli investimenti in università e ricerca.

Nel merito, il ddl Gelmini è un deciso passo indietro. Un disegno iper-centralista, che sottopone a un inestricabile reticolo di norme ogni dettaglio della vita degli atenei.

Meccanismi macchinosi per il reclutamento e un destino di incertezza e precariato per i giovani ricercatori. Nessuna considerazione per gli studenti, con un Fondo per il merito privo di dotazione finanziaria.

Il Pd oppone al disegno del governo un progetto alternativo, contenuto negli emendamenti che il Senato esamina nell’ultima settimana di luglio.

Partiamo dagli studenti, finanziando un sistema borse nazionali di merito, riattivando l’edilizia universitaria, garantendo l’assistenza sanitaria per i fuorisede. Per ancorare l’orientamento a parametri certi proponiamo un test unico su base nazionale per valutare il livello di formazione all’ingresso e all’uscita dall’università.

I ricercatori e le carriere richiedono interventi incisivi. Nei primi sei anni di applicazione della legge chiediamo di attivare procedure di reclutamento per dare a migliaia di ricercatori l’opportunità di entrare nei ruoli. Vorremmo portare l’età media dei docenti nella media europea (ne siamo ben lontani), sia rendendo più veloce l’accesso al ruolo, sia portando l’età di pensionamento dei docenti a 65 anni, consentendo comunque agli atenei di chiamare i docenti attivi a svolgere attività didattiche e di ricerca. Tutte le risorse derivanti dai pensionamenti dovranno ovviamente essere impiegate per nuovi docenti. Poi proponiamo di porre un deciso argine al precariato, con un contratto unico di formativo di ricerca, che assorba l’insieme di tipologie contrattuali, e rendendo il percorso di accesso al ruolo meno incerto. Proponiamo poi che si passi a un ruolo unico dei docenti universitari con eguali diritti e doveri accademici, ad eccezione dell’elezione a rettore.

Proponiamo inoltre che le risorse siano ripartite almeno per il 50% in base alla valutazione della ricerca e della didattica, e che una quota ulteriore (tra il 6% e il 12%) sia assegnata in base a missioni scientifiche o di ricerca di interesse nazionale, e a interventi finalizzati alla coesione territoriale del sistema.

È impossibile mantenere l’attuale livello di sottofinanziamento dell’università. Si deve ripristinare le risorse tagliate dal 2008 ad oggi e puntare a raggiungere, entro il 2020, la media europea di investimenti.

Su questi punti auspichiamo un confronto nel merito, nella consapevolezza che il sistema universitario costituisce uno degli interessi generali del Paese, che dovrebbero stare il più possibile al riparo da logiche di parte e di propaganda. Insieme, forze politiche, economiche e sociali, studenti e docenti, dovremmo “pretendere” regole migliori e risorse adeguate al rango che il nostro Paese deve mantenere.