Obiettivo 2013 (ma i soliti «dotti» non se ne accorgono)

Nell’immediato: fare opposizione a questo governo da fine impero. In prospettiva: arrivare al 2013 con una proposta vincente, contribuire con senso di responsabilità repubblicana alle riforme necessarie per il Paese. Non proprio una passeggiata, insomma. Specie dopo 20 anni di rivolgimenti culturali di dimensione planetaria, e – tema più domestico – di friabilità dei soggetti politici. Di crisi sempre più evidente della politica e delle istituzioni democratiche.

Al PD occorrono, dunque, visione prospettica e lavoro quotidiano. Pazienza e coesione. Un po’ meno l’immancabile esercito di dotti, medici e sapienti accorsi precipitosi al suo capezzale, poche settimane dopo il Congresso, a causa di un -0,5% nei sondaggi (peraltro nel complesso assai positivi). Il PDL e la destra litigano su tutto, aggregano sì coalizioni ampie ma con candidature decisamente più deludenti delle nostre? No – secondo loro – siamo noi il problema. Siamo deboli e indecisi. Le coalizioni intaccano la purezza del nostro DNA («spirito del Lingotto, primarie sempre!»), non abbiamo imposto ovunque i nostri candidati. I quali dovrebbero rispondere a un semplicissimo criterio: la perfezione. Autorevoli, competenti, nuovi, ma anche già popolarissimi e dunque capaci di vincere le primarie. E di convincere anche gli alleati che non le accettassero ad allearsi ugualmente con noi, ovviamente. Nel caso in cui le primarie non dovessero condurre  all’esito auspicato: «Si potevano trovare candidature migliori». Viva la coerenza.

Questi primi mesi dicono invece che il progetto del PD è più forte delle sue inevitabili difficoltà. E rendono più chiari i nodi che abbiamo dinanzi. Trovo impropria la lettura caricaturale della nostra linea, che condurrebbe al superamento del bipolarismo e all’abbassamento delle ambizioni riformiste. In realtà, sono gli elettori a scegliere in base a una logica tendenzialmente bipolare, ma a votare – dalle elezioni comunali alle politiche – per un partito. E nessun partito – si pensi al peso della Lega nel centrodestra – è in grado di vincere da solo. Inoltre le leggi elettorali, a tutti i livelli, premiano coalizioni ampie, e il centrodestra puntualmente aggrega tutto il possibile e molto di più (si pensi all’inquietante caso dei neofascisti nel Lazio). Dunque, meno attenzione ai modelli astratti: leggi elettorali e sistema politico sono solo il campo di gioco. Vogliamo cambiarlo (ma escluderei che Berlusconi ci regali regole elettorali che agevolino il nostro compito), ma vogliamo anzitutto vincere la partita.

E la partita dobbiamo vincerla perché l’Italia non può permettersi altri anni come questi. Il Paese è avvolto ormai da una coltre di depressione collettiva. Si sta sfibrando la tenuta morale della nazione, insieme allo stato di diritto, alla coesione sociale e territoriale. Costruire una proposta di governo che porti fuori l’Italia da questa palude è un dovere. E gli interventi prioritari possono essere condivisi da uno schieramento ampio di forze. Che comprende l’UDC, per intenderci. In cima all’agenda mobilità e giustizia sociale, ovvero equità e opportunità generazionale, di genere e territoriale. Piano nazionale per i servizi pubblici fondamentali (istruzione, sanità, infrastrutture). Giustizia che funzioni. Nuova politica industriale. È da qui che passano sviluppo e lavoro. Eccolo lo shock riformista che serve. Altro che riformismo debole.

Infine, noi, il PD. Lo spazio politico c’è, la volontà degli elettori di far crescere una forza riformista di governo è più ferma del tempo necessario per darci un’identità più forte. Perché oggi è di nuovo questo il tratto decisivo. Facciamo però chiarezza sul senso del Congresso: siamo passati dalla vocazione maggioritaria («comunque soli», Veltroni dixit) a un partito coalizionale («mai soli»), perno del centrosinistra. Dobbiamo essere conseguenti. Un conto sono le scelte del PD (e lo spazio per le primarie), un altro le scelte delle coalizioni. Altri due temi per i prossimi mesi. Il primo: un corpo disarticolato deve diventare un soggetto democratico con regole condivise e vincolanti. In questi anni sono cresciute forti leadership locali e aree culturali, che ci sono anche quando nascono negando di essere tali. Devono animare la vita democratica del partito, e non minarne la crescita. Il secondo: la legalità. Dobbiamo essere intransigenti. Gli episodi di queste settimane descrivono sistemi di malcostume e corruzione che hanno nuovamente superato il livello di guardia. Non è accettabile dover sentire, talvolta a ragione, che il fenomeno riguarda allo stesso modo i due schieramenti. Sappiamo che non è così, perché la cultura dell’impunità e della a-moralità – della a-legalità – sarà il peggior lascito del berlusconismo all’Italia. E dunque – non per marcare una superiorità morale, ma perché l’onesta individuale è il requisito minimo per stare nel PD – dobbiamo essere esemplari e inattaccabili. E applicare le nostre regole interne in modo rigoroso.

In conclusione, non c’è un paziente da curare, ma un partito giovane con obiettivi precisi. Che dopo le regionali dovrà mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità: ciascuno dia il suo contributo per consolidarne l’identità e il progetto. Le regionali, più che un test sul nuovo segretario, sono un test sull’Italia. Speriamo che gli elettori diano un segnale di risveglio: l’inazione del governo ha reso la crisi più dura che nel resto d’Europa, la pressione fiscale aumenta, il futuro dei giovani (scuola, università, welfare) è in coda all’agenda della destra.  Dobbiamo essere, anche qui, all’altezza del compito: pulizia e competenza nelle scelte, proposte piene di futuro per le nostre comunità regionali.

 

Treseizero, il web magazine di Trecento Sessanta