Rincorrere il consenso effimero

Rincorrere il consenso effimero

Il sottile confine tra flessibilità e azzardo nella Legge di stabilità

di Marco Meloni da Il Foglio del 9 ottobre 2015

Flessibilità per la crescita o azzardo per il consenso? La politica fiscale e gli strumenti contenuti nel Def aggiornato e annunciati per la Legge di Stabilità stanno nel mezzo di questo dilemma.
L’ulteriore aumento del deficit fino all’1% del PIL, l’allentamento della spending e il rinvio del rientro dal debito significano minor disciplina fiscale e “sostegno alla crescita” con l’indebitamento. Il rischio di azzardo è evidente.
Il contesto più roseo – grazie a petrolio e euro bassi, alla BCE di Draghi e al minor costo del debito: fattori esterni positivi e irripetibili, com’è noto fuori dal magico mondo renziano – suggerirebbe, all’opposto, un rientro più rapido alla normalità del bilancio in pareggio. Gli “eventi eccezionali” per il deficit sembrano essere venuti meno, e i rischi di nuove turbolenze consiglierebbero prudenza, più che “flessibilità”. Le indicazioni della BCE all’Italia, del resto, sono chiare: dare priorità alla riduzione dell’enorme debito pubblico.

Ma il confine tra flessibilità e azzardo dipende soprattutto dagli strumenti. Via i “tabù” della sinistra, viva i totem berlusconiani, addio alle tasse sulla casa (anche per i ricchi), prima “specchietto per le allodole” (Matteo Renzi, 2013) e ora architrave della manovra. Entusiasta anche il ministro Padoan, che da economista predicava di spostare la tassazione dal lavoro alla proprietà. Eppure un equo tributo sulla casa esiste anche nei Paesi a bassa tassazione: finanzia i servizi locali. È spiacevole (quale tassa è piacevole?) perché è molto tangibile, non è nascosta nella busta paga. Ma – sosteneva nel 2013 il capo economista OCSE – è efficiente, è la meno distorsiva. Con la nostra evasione, e senza una vera tassa di successione – unicum tra le grandi economie di mercato – cancelliamo l’ultimo barlume di tassa sulla ricchezza e colpiamo il principio costituzionale della progressività dei tributi.

Devono crescere occupazione e produttività; in 20 anni la crescita della spesa previdenziale ha portato a tagliare del 20% gli investimenti per l’istruzione. Però, anziché ridurre stabilmente le tasse sul lavoro (femminile e al Sud, in primis), si prospettano nuove risorse per le pensioni.

Ridurre la pressione fiscale (cosa diversa dal cambiar nome o occultare le tasse) è necessario. Due sono le vie: ridurre le spese o fare deficit. Per i 32 miliardi di tagli alla spesa elaborati dal governo Letta, stesso destino del Rapporto Cottarelli: cestinati. I roboanti annunci di tagli sono quotidiani. La realtà è diversa: mentre aumentano le spese di Palazzo Chigi, sulla spending si balbetta una “maggiore gradualità”. I tagli veri, oltre il 10% in 4 anni, sono solo agli investimenti: sanità, strade, ponti.

Ma l’argomento non è popolare, meglio prendersela col “burocrate di Bruxelles”. Come se la Commissione non agisse secondo i poteri attribuiti dagli Stati. Il governo afferma che “dovremmo contare di più a Bruxelles” mentre sbertuccia le istituzioni comunitarie: non è una grande idea.
La disciplina di bilancio mette l’Italia allo specchio. Nel 1992 Andreatta definiva “una pietra sulle nostre vergogne degli ultimi 20 anni” la modifica all’art. 81 della Costituzione, poi approvata nel 2012: da destra e sinistra sembra sia stato un incidente di percorso, un contratto firmato sotto coercizione fisica. Volevamo solo calmare i mercati e, tornata la bonaccia, la festa riprende? Nel 1998 Ciampi polemizzava non con gli “euroburocrati” ma col governo olandese che non ci voleva nell’euro perché non avremmo rispettato i parametri di Maastricht. Negli ultimi 20 anni non siamo stati tutti uguali. Anche l’Italia di Ciampi va rottamata?

Il punto è l’Europa: quella che ci spinge a una disciplina fiscale che da soli non sappiamo darci è l’Europa unita che dobbiamo costruire. Un governo lungimirante lavora nel concreto per un’Europa politica in cui esercitare una vera sovranità condivisa, a partire da quella fiscale. Rivendicare una presunta “autarchia” rispetto all’UE, significa, al di là della retorica dei documenti, essere un baluardo dello status quo che ci ha impoverito. Dobbiamo essere virtuosi e adottare strumenti di politica fiscale per la competitività non perché “ce lo chiede l’Europa”, ma per le future generazioni.

Quali le ragioni di queste scelte? Conquistare gli elettori di destra (con politiche di destra è più semplice) e aumentare il consenso al premier, si legge. Capisco: superare il muro del suono del 30% del gradimento popolare, e giungere così “solo” una decina di punti sotto il livello più basso del suo predecessore (febbraio 2014), è un obiettivo importante. Ma da uno statista autorevole e coraggioso, degno di guidare l’Europa, quale il nostro premier si considera, ci sarebbe da attendersi la ricerca di una solida fiducia interna e internazionale, più che di un consenso effimero, e per giunta piuttosto modesto.

Marco Meloni