Un partito per la ricostruzione nazionale

Ragionare, oggi, con serenità sulle prospettive della democrazia italiana non è facile. La crisi politica della destra sta conducendo il Paese sull’orlo del baratro e cresce il pericolo che le istituzioni democratiche siano scosse da proteste popolari, vista anche la drammatica iniquità della manovra approvata dalla maggioranza pochi giorni fa. Un film già visto, che nel 1994 ebbe come esito l’ascesa al potere di Berlusconi.

Anche per questo è utile partire da una riflessione sul biennio 1992-1994. Allora si tiravano le somme del primo quarantennio melonirepubblicano: la “Repubblica dei partiti” ci aveva condotto, dall’arretratezza e dal disfacimento civile e democratico del ventennio fascista, a diventare una delle più grandi economie del mondo, seppur con un rendimento decrescente, segnato dall’alta inflazione, dalle svalutazioni competitive e dall’abnorme debito pubblico.

Caduto il Muro, il sistema democratico appariva stremato, la cultura delle regole in crisi, la fiducia nella politica annientata. L’Italia era scossa da scandali e pesanti interventi di risanamento. Come reagì allora il Paese? I cittadini organizzarono la partecipazione della società civile, promuovendo il cambiamento: dal voto di delega ai partiti si passò all’elezione diretta dei vertici degli esecutivi; da una democrazia che affidava alla dialettica parlamentare (e ai partiti) la formazione dei governi alla scelta maggioritaria, che mirava a “far scegliere il governo agli elettori”; dal consociativismo al bipolarismo muscolare, anche in seguito alla fine dell’unità politica dei cattolici.

La nuova strada fu intrapresa in modo certo approssimativo, sotto la pressione di sentimenti talvolta irrazionali e, in seguito, all’azione di soggetti che si erano – più o meno temporaneamente – sostituiti ai partiti politici, implosi sotto il peso delle indagini della magistratura e dei risultati elettorali. Azzardiamo un bilancio: quel biennio fu una prova di vitalità della nostra democrazia, che superava la crisi ristabilendo il circuito della rappresentanza e la relazione tra delega, responsabilità e consenso, annegata nell’autoreferenzialità di soggetti che chiedevano consenso per esercitare potere e, da tale esercizio, generavano il consenso.

Si è realizzata, effettivamente, una democrazia dell’alternanza, pur con enormi disfunzioni determinate, anzitutto, dai condizionamenti al pluralismo dell’informazione. Allo stesso tempo, però, si sono verificati alcuni fenomeni molto negativi: primo, il sistema si è retto su strutture politicopartitiche assai deboli, con partiti personali e “non democratici”; secondo, la durezza del bipolarismo ha annientato la capacità di costruire valori condivisi, anche perché, a destra, le coalizioni “personali” hanno operato una costante negazione dei principi dello stato di diritto e della divisione dei poteri; terzo, a roboanti promesse in termini di efficienza il governo ha risposto con una totale incapacità nel concreto.

Non si sono fatte né le riforme bipartisan, né si è avuta, da parte degli esecutivi (con l’eccezione del primo Ulivo) la forza di realizzare le promesse elettorali. Ecco l’origine del “decennio perduto” italiano, così come della crisi della democrazia, amplificata dal mai troppo vituperato Porcellum, che sposta interamente verso i partiti, sempre più autoreferenziali e leaderistici, la scelta dei parlamentari, conducendo al discredito generalizzato verso la “Casta”.

Oggi i partiti riscuotono tassi bassissimi di fiducia da parte dei cittadini: appena il 7,7%, un tasso più basso di qualsiasi altra istituzione (dati Demos&Pi). Ragionare del partito non significa, dunque, pensare solo al futuro del nostro. Significa parlare di democrazia e crescita e collocarci all’altezza delle responsabilità che la drammatica situazione del Paese ci affida. Significa pensare a come ricostruire il tessuto democratico e lavorare per una prospettiva di crescita.

Come indirizzare queste scelte? Provo a esprimere alcune idee in proposito. Dobbiamo essere presenti nella società e accompagnare l’evoluzione della nuova forma di Stato. Questo si traduce in un partito territoriale, capace di dotarsi di strumenti di coordinamento e unità, rispettoso delle diversità regionali. Un partito di rete e nella rete. Per arrivare a questo, è fondamentale, però, chiarire la funzione del partito nella democrazia odierna: non un “principe moderno”, ma un soggetto integrato, che si confronta con una realtà plurale e una molteplicità di attori sociali.

Il rapporto tra politica e società va orientato al principio di sussidiarietà orizzontale: questione che riguarda il ruolo dei cittadini nelle scelte dei partiti, il protagonismo degli elettori attraverso le “primarie” e i meccanismi di vera partecipazione deliberativa, così come il ruolo delle realtà associative nella costruzione delle proposte e nella formazione politica.

Dobbiamo costruire un partito volto all’interesse dell’Italia, contribuendo al definitivo superamento della nostra difficoltà ad affrontare il tema dell’interesse collettivo o generale (nelle espressioni di Andreatta e Mattioli). Vista la crisi della forma statuale nel nostro Paese, è ingenuo credere che il nostro deficit istituzionale possa essere superato attraverso un rinnovato patriottismo dei partiti.

L’idea del partito come soggetto metafisico e “destinale” non è diversa dalla posizione che colloca i problemi dell’Italia in mali atavici e insuperabili, affidandosi a un determinismo che chiude ogni possibilità di ripresa. In un cammino di rinnovato patto nazionale e necessaria capacità di stare nel mondo, dobbiamo chiarire le priorità del Paese: riprendere a crescere, costruire un mercato regolato per esercitare le libertà di impresa, combattere disuguaglianza galoppante che impedisce la realizzazione della persona.

Riprendere a crescere è la condizione affinché il lavoro possa trovare un senso effettivo, in un nuovo patto di equità sociale, generazionale e territoriale. Per realizzare queste ambizioni occorrono cambiamenti radicali, progetti di governo ambiziosi, persone all’altezza del compito. La nostra visione istituzionale e la costruzione della struttura del nostro partito devono mirare a questi obiettivi. Sotto il primo aspetto, è necessario stabilizzare il bipolarismo, tratto fondante dell’esperienza del PD, partito delle opportunità che mira a conquistare il centro vitale della politica, lo spazio dove si incontrano i bisogni della maggioranza degli italiani.

I meccanismi elettorali devono accompagnare questo processo, con l’obiettivo di rendere efficiente il circuito “coalizioni di governo-legislativoesecutivo”. Dobbiamo far pace col concetto di leadership, liberandolo dall’ossessione di Berlusconi. La leadership non è mera personalizzazione della politica ma fa parte del rapporto moderno tra cittadini ed elettori.

Ora è necessario “integrare” le scelte dei leader, a livello politico e istituzionale, nei meccanismi di selezione della classe dirigente del partito. È questa la via per superare il conflitto, più o meno latente, tra “partiti e presidenti” e per tentare di risolvere la vera involuzione della nostra democrazia, fatta sempre più di partiti personali con leadership personali – o collettive, più raramente – inamovibili. Per questo è fondamentale la circolazione delle classi dirigenti.

Un partito all’altezza dei bisogni del Paese deve esprimere una classe dirigente di grande qualità e noi dobbiamo fare la nostra parte, migliorando la funzionalità del partito dal punto di vista del capitale umano, delle strategie organizzative e della comunicazione. Il partito deve riuscire a mettere insieme realismo e progettualità, per comprendere la società e attrarre i migliori talenti. È decisivo, per l’autonomia e la forza della politica, che le sue classi dirigenti siano generalmente considerate capaci di svolgere altre funzioni sociali al medesimo livello.

Sono necessari apertura, qualità, rappresentatività della classe dirigente, che si ottengono con meccanismi di reale competizione, con la contendibilità delle cariche e con verifiche elettorali costanti. In questo senso deve intendersi anche il superamento del modello funzionariale, giustamente ribadito da Bersani nell’ultima Direzione.

I migliori talenti espressi dalla nostra società dovrebbero avere l’opportunità di impiegare parte della propria vita dentro un partito politico e nelle istituzioni, per poi dedicarsi ad altro. Sarebbe un passo fondamentale per riportare quella fiducia e quella credibilità che oggi, drammaticamente, mancano.

Marco Meloni
responsabile PD Riforma dello Stato, PA, Università e ricerca

 

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