Filippo Andreatta: «E’ l’ora del partito del ricambio. Generazionale».

Fosse per lui, l’Unione andrebbe presa, girata come un calzino, svuotata, farcita con una nuova classe dirigente e ribattezzata «Partito Riformatore». Filippo Andreatta , 37 anni, professore di Scienze politiche all’Università di Bologna, figlio del maitre à penser democristiano Beniamino e figlioccio di Romano Prodi, e il teorico più accanito del (nascituro?) Partito Democratico.

A metà gennaio quando il Professore decide di fare appello allo spirito delle primarie per accelerare il processo di trasformazione del centrosinistra, lui prende carta e penna e scrive un appello: «Un nuovo soggetto politico è necessario per dare al Paese un Governo capace dì superare la crisi». Le reazione dei partiti? Franco Marini, della Margherita, è il più duro: «Chi accelera troppo rischia di andare a sbattere». Andreatta però non molla. Conosce Prodi da una vita, anche perché il Professore era l’alunno prediletto di suo padre Beniamino. Non saprei risalire al primo incontro con Romano… forse quando aveva sei giorni?», dice. I due hanno un rapporto solidissimo. «Quando Proli nel 1995 decise di accettare l’impegno con l’Ulivo», racconta, «mi proposi di aiutarlo con dei paper periodici sulla politica internazionale. Be’, continuo a farglieli arrivare sulla scrivania». Non solo. Andreatta ha fatto parte da subito del think tank della «Fabbrica del Programma» ed è tra gli animatori della rivista (online e cartacea) Governare per, diretta da Arturo Parisi. Ora considera se stesso «un intellettuale irresponsabile» libero di esprimersi. Nel senso che non avendo, e non volendo avere, responsabilità politiche si sente libero di elaborare le soluzioni più temerarie. Partendo da due considerazioni: la prima è che esiste un drammatico problema generazionale;

la seconda è che i partiti tradizionali†sono a termine. «Bisogna superere gli antichi modelli», dice. «I partiti ideologici giustificavano l’esistenza di una casta di sacerdoti/dirigenti che elaborava l’ideologia. Oggi i partiti sono diventati post ideologici e quindi la distinzione e la distanza tra militanti/dirigenti e semplici sostenitori/elettori sta per essere ridotta». Detta così sembra una minaccia rivolta alle attuali strutture di partito. «Io rispetto gli apparati», prosegue Andreatta, «ma se si vuole modernizzare il Paese si deve andare avanti: da questo punto di vista, le primarie del 16 ottobre sono state un punto di non ritorno».

Anche lei inneggia prodianamente allo spirito delle primarie? «Dico qualcosa di più. I quattro milioni di elettori che si sono espressi per indicare la leadership del centrosinistra sono la platea a cui si deve rivolgere il nuovo partito». Tra quelle persone c’erano anche molti fan di Fausto Bertinotti e molti sostenitori della gauche estrema. Anche loro nel Partito Democratico? «No. Bisogna tracciare un confine con la sinistra radicale, ma alla stesso tempo bisogna aspirare a un soggetto politico aperto, in cui le decisioni si prendano con tecniche aperte: le assemblee e le primarie».

Pare di capire che per Andreatta il Partito Democratico non dovrebbe essere, come pensano in molti, solo l’accorpamento tra i DS e la Margherita. «Infatti. La semplice fusione dei due apparati di partito si risolverebbe in una spartizione di incarichi. Certo, sarebbe un passo avanti, una trasformazione dentro il sistema. Io, invece, vorrei una riforma radicale del sistema verso il bipartitismo». Nella quale sarebbe previsto anche un ricambio delle parsone? «Ovviamente sì. Le cito qualche dato che dimostra come il Paese si stia accartocciando nella gerontocrazia». Prego. «Nel centrosinistra sono soltanto otto i deputati sotto i 39 anni. Mentre i nati dopo il 1960 rappresentano il 47% dell’elettorato. Bill Clinton era governatore dell’Arkansas a 32 anni. E in tutta Europa sona moltissimi i leader di partito e di governo andati al potere a quarant’anni». Da noi invece i candidati premier, Berlusconi e Prodi, sono vicini ai settanta. «» un’ anomalia. Dovuta anche al fatto che il sistema politico è bloccato. Le coalizioni sono instabili anche perché ci sono ventotto partiti in campo».

Ancora un po’ di propaganda per il Partito Democratico? «Un grande partito del centrosinistra resisterebbe meglio anche alle pressioni dei gruppi di interesse e di potere costituito. Ci sarebbero più possibilità di fare riforme».

Parlando di nuove aggregazioni c’è anche chi auspica scenari ultracentristi: la ricostruzione di un grande partito, una nuova Dc. Intorno alle figure di Francesco Rutelli e Pier Ferdinando Casini. «La Dc è un’esperienza irripetibile. Piuttosto mi sembra che emerga la tentazione di un centro tecnocratico. Ma l’Italia ha bisogno di scelte chiare e non di paludi. Quindi quella è una tentazione da cui ci si deve immunizzare. Non sono mica l’unico a pensarla così». Chi la pensa come lei?

«Di sicuro quelli che hanno firmato con me l’appello: quarantenni o giù di lì che gravitano intorno a Governare perÖ e al Mulino». Parliamo di Franco Mosconi (che insegna economia industriale a Parma ed era assistente di Prodi a Palazzo Chigi)), di Gregorio Gitti (che è docente di Diritto privato alla Statale di Milano), di Salvatore Vassallo (che è allievo di Gianfranco Pasquino e uomo dei numeri della cerchia prodiana), e dei politologi-economisti Massimo Bergami, Claudio Lodici e Maurizio Sobrero. Chi altro? «Il nostro editore Carlo Feltrinelli. E credo che Gad Lerner e Michele Salvati ragionino nella stessa direzione. Come anche i manager Piero Celli e Federico Minoli». Tra i politici? C’è qualcuno che le sembra più orientato di altri verso questo modello di partito democratico?†«Anche se oggi ricoprono incarichi importanti nei loro partiti, mi aspetto che Rosy Bindi e Pierluigi Bersani abbiano un ruolo fondamentale nel nuovo soggetto politico».

Sono cinquantenni. «Ovviamente Enrico Letta». Immancabile. «Tra l’altro con lui ho un rapporto di amicizia che dura da 20 anni. Ho conosciuto Enrico a metà degli anni Ottanta. Era presidente dei giovani popolari europei. Oltre che un tecnico, è un fine ideologo. Ricordo il coraggio con cui impose l’apertura del gruppo ai ragazzi dei Paesi dell’Est dopo l’89». Lei allora faceva politica? «Sì. Mi sono iscritto ai giovani democristiani a quindici anni, in polemica con le manifestazioni dei giovani del Pci contro gli euromissili». Poi? «Nel 1993 ho contribuito a dar vita ai giovani popolari. Il Ppi di Mino Martinazzoli non era ancora nato dalle ceneri della Dc. Insieme con Francesco Russo, scrivemmo lo Statuto su un tovagliolo di carta, in una sera d’estate alla Festa dell’Unità. Ma il mio è sempre stato un impegno part-time». Perché? «Perché sono sempre stato poco in Italia. A sedici anni i miei genitori mi mandarono in Galles, nel Collegio del Mondo Unito, una scuola frequentata da ragazzi di 140 Paesi. Poi ho studiato alla London School of Economics e alla Columbia University con Giovanni Sartori. Nel 1996, tornato in Italia, mi legai accademicamente ad Angelo Panebianco, che mi fece capire l’importanza di tenere ben distinto, in aula, quel che si pensa da quel che si insegna». Vuol dire che Andreatta esclude un impegno full-time in politica? Il suo nome è spuntato sia per una candidatura alla Camera sia per un ministero in quota prodiana. Ma lui dice che sono tutte invenzioni. Anzi: «Ipotesi irrealistiche».