Romano Prodi sul bilancio UE: L’Italia punita dall’Europa dei ragionieri

Sono passati pochi giorni appena da quando il Consiglio europeo ha trovato un accordo sulle prospettive finanziarie dell’Unione europea per il periodo 2007 – 2013, ma le interpretazioni date all’accordo, soprattutto in Italia, sono tali da spingermi a sottolineare alcuni importanti aspetti.

Innanzitutto, non possiamo dimenticarci che il bilancio non è un fine in sé stesso ma è un mezzo. Per fare cosa? Per dotare l’Unione degli strumenti necessari ad affrontare le nuove sfide che noi europei abbiamo innanzi: le sfide della globalizzazione e della concorrenza mondiale, le sfide della competitività, della ricerca e dell’innovazione, le sfide dello sviluppo e della solidarietà in campo economico, sociale e ambientale, le sfide della democrazia e della partecipazione. Sfide ancora più importanti nella grande Europa a venticinque, che vuole estendere prosperità, stabilità e solidarietà a tutto il continente europeo ed ai†paesi ad essa vicini e che vuole esser protagonista sulla scena globale.

Il bilancio è dunque lo strumento per attuare un progetto politico.

Così lo avevamo concepito, nel 2004, quando elaborammo la prima proposta per il futuro finanziamento dell’Unione. Una proposta che era stata preceduta e preparata da un’ampia consultazione, soprattutto per quanto concerne la solidarietà regionale, e che, pur rimanendo entro il tetto massimo fissato dall’Unione a quindici, voleva dare all’Unione a venticinque la possibilità di attuare in modo efficace e coerente le sue grandi strategie politiche, come ad esempio la strategia di Lisbona per la competitività e l’innovazione, la gestione positiva dell’allargamento a 10 nuovi paesi, la nuova politica di vicinato, le strategie nel campo dell’immigrazione, della sicurezza o della cittadinanza europea.

Un bilancio per la massima Europa possibile oggi e non per la minima Europa necessaria.

Un bilancio che, con 1022 miliardi di euro per 7 anni rispondeva ad una visione forte dell’Unione, e non a quella logica ragionieristica che ha caratterizzato l’intera gestione del negoziato in seno al Consiglio, sino al suo epilogo di due giorni fa.

Con un bilancio di 862 miliardi di euro, pari cioè all’1,045 del prodotto interno lordo europeo, è semplicemente impossibile per l’Unione raggiungere molti degli obiettivi che essa stessa si è prefissata, e che corrispondono alle forti aspettative degli Europei.

Rispetto alla nostra proposta, per citare solo alcuni esempi, i fondi destinati alle aree più povere (cioè la politica di coesione) sono stati tagliati di trenta miliardi di euro. Quelli destinati alla competitività,alla crescita e all’innovazione sono stati tagliati quasi del 50%, scendendo da121,7 miliardi di euro a 72 miliardi. Tutta la cosiddetta politica di Lisbona mirata a rilanciare l’Europa nei settori più avanzati delle tecnologie dell’Economia della conoscenza è stata praticamente annullata.

Questo,dunque , è un bilancio che non corrisponde al vero interesse nazionale dell’Italia che è quello di fare parte di un Europa capace di crescere,di innovare e di promuovere e mantenere la coesione tra i paesi che la compongono.

Questo, peraltro, è un bilancio che non riflette l’interesse nazionale dell’Italia nemmeno se si guarda al puro calcolo aritmetico del dare e dell’avere.

Anche da questo punto di vista il giudizio non può che essere negativo.

Per stabilire, infatti, se un beneficio sia reale o contabile, occorre chiarire la base da cui si parte. Se si parte da una base particolarmente sfavorevole all’Italia, emersa nel corso del negoziato, si puo’ parlare di beneficio. Ma se si parte dalla base reale, cioè dai fondi che l’Italia ha ricevuto nel periodo 2000 – 2006, o dalla proposta iniziale proposta dalla Commissione nel 2004, i vantaggi non esistono. Mentre in base alla nostra proposta l’Italia, nell’Unione a 25, con l’entrata di paesi molto più poveri di noi, manteneva sostanzialmente invariato il livello di finanziamento ricevuto nell’Unione a 15 (passando da 32,7 miliardi a 31,6), con l’accordo ottenuto da Blair l’Italia riceve 28,2 miliardi di euro. Perdiamo quindi circa 4,5 miliardi di euro, mentre altri paesi più ricchi mantengono sostanzialmente invariato il loro contributo (lo stesso “sconto britannico” comincerà a diminuire solo nelle ultime annualità).

Preoccupante, si potrebbe pensare? Certamente si, a mio parere. Certamente no, invece, per il nostro governo, che ci invita, al contrario, a considerare l’accordo come una vittoria.

Addirittura, l’Italia avrebbe guadagnato, infatti, circa 1, 9 miliardi rispetto all’ultimo proposta della Presidenza britannica. Questo è inconfutabile (è riportato nero su bianco al paragrafo 54quater del documento britannico), salvo osservare che il nostro contributo al bilancio è cresciuto contestualmente di circa 1 miliardo (per effetto della crescita globale del bilancio UE). Il beneficio si ridurrà quindi già a 1 solo miliardo. Se si considera poi che nei precedenti due pacchetti proposti da Blair l’Italia aveva peggiorato la sua situazione (sempre rispetto alla proposta lussemburghese) di circa 1,5 miliardi è facile calcolare che si tratta di un guadagno con†segno negativo.

Una politica a cui va sommata la perdita iniziale accettata con la proposta lussemburghese (-4 miliardi).

Ciò al netto di una miriade di piccoli meccanismi a vantaggio di questo o quel paese le cui ripercussioni sui nostri interessi non è sempre agevole calcolare come il fondo tecnologico a favore della Spagna per ben 2 miliardi di euro, 100 milioni a favore della Corsica e della regione francese dell’Hainaut, 300 milioni per i Lander orientali della Germania, 100 per la Bavaria, riduzione del contributo annuo RNL†per i Paesi bassi di 650 milioni di euro (per compensare la rinuncia ad un beneficio supplementare sui diritti di riscossione dei dazi doganali)†e di 150 per la Svezia, sempre i†Paesi bassi†insieme alla Svezia, beneficeranno, inoltre, di un tasso di contribuzione della risorsa IVA ridotto rispetto agli altri Stati membri (10% invece del 30%), stesso trattamento per†Austria e Germania†che beneficeranno†del 15%, mentre Austria, Finlandia, Lussemburgo, Irlanda, Francia e Svezia otterranno una preassegnazione di 3,57 miliardi sullo sviluppo rurale sottratti alle normali regole di divisione tra gli Stati membri). E per l’Italia?

Il risultato finale per il nostro Paese è che, con un saldo passivo pari allo 0,34 per cento, pur con un reddito molto inferiore, diverremo contributori netti pari alla Francia ( – 0,33) e alla Svezia ( – 0,39) e nettamente superiori alla Gran Bretagna (- 0,29), mentre la Spagna ( + 0,23) rimane un corposo beneficiario netto dei fondi europei.

Non molti, poi, sembrano ricordarsi che, al di là delle competenze giuridiche, l’accordo finale si avrà unicamente con l’approvazione politica dell’intero pacchetto da parte del Parlamento europeo, che sperava in una soluzione ben più ambiziosa di quella che oggi è invece chiamato ad esaminare.

Mi sembra difficile definire questo risultato “largamente positivo”: l’Europa ha bisogno di ben altro coraggio e di ben altre ambizioni.

Credo invece che i veri aspetti positivi di quanto accaduto al Consiglio europeo siano altri, e tra questi vi è senza dubbio il ruolo svolto da Angela Merkel. La volontà dimostrata dalla Germania di rilanciare il processo d’integrazione è di grandissima importanza. Non siamo ancora usciti dalla crisi, ma possiamo cominciare ad avviare un nuovo percorso, nel 2006 e nel 2007, per prendere†nuove iniziative concrete, a cominciare dalla zona euro, e per riaprire la questione istituzionale, che resta un passaggio fondamentale per un’Unione più democratica, semplice ed efficiente.