Voto di laurea e dintorni: la riforma dei concorsi per premiare i meritevoli
Le polemiche intorno all’approvazione di una riforma possono condurre a due esiti: favorirne la conoscenza e migliorarne il contenuto, oppure fermare qualsiasi innovazione. Quando si tratta di università e valore del titolo di studio, data la complessità dell’argomento e l’approccio solitamente ideologico che domina il dibattito sulla materia, la probabilità che prevalga il secondo esito è elevatissima. Stavolta siamo riusciti – tutti insieme, Parlamento e governo – a far prevalere il primo approccio.
Partirò dal tema “laurea e concorsi pubblici” perché ha avuto un maggiore impatto esterno. Con alcune avvertenze preliminari. Anzitutto, l’obiettivo di fondo è favorire la partecipazione ai concorsi pubblici di giovani motivati dall’idea di servire le istituzioni pubbliche e l’effettiva selezione dei candidati maggiormente qualificati, tornando a una effettiva e “normale” applicazione dell’articolo 97 della Costituzione (“Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso […]”).
Un obiettivo che può essere conseguito con concorsi pubblici più efficienti, equi e trasparenti, grazie alla valutazione dei candidati in più fasi (preselezione / fascicolo del candidato con titoli e certificazione delle competenze teoriche / prove concorsuali vere e proprie). Infine, non dobbiamo dimenticare che ora stiamo approvando una legge-delega; le misure specifiche per conseguire questi obiettivi sono affidate al governo in sede di decretazione delegata. Ecco, dunque, le principali innovazioni introdotte alla Camera, contenute in una serie di emendamenti di cui sono stato primo firmatario.
Laurea e concorsi pubblici: più equità e più opportunità
Un mio emendamento, che corrisponde a una proposta presentata dal Pd fin dal 2012 (precisazione necessaria, visto che incredibilmente il M5S ne rivendica la primogenitura: qui e qui una spiegazione più dettagliata) e che è stato approvato dalla Camera, prevede che il voto minimo di laurea non possa più costituire un requisito per la partecipazione ai concorsi pubblici. Il voto di laurea è – inevitabilmente e legittimamente – variabile tra i diversi atenei e corsi di laurea: per questa ragione non ha senso che costituisca una barriera all’ingresso rispetto alla partecipazione ai concorsi pubblici.
Il merito testimoniato da voti più elevati continuerà a valere anzitutto perché la migliore preparazione consentirà di conseguire migliori risultati anche nei concorsi, e poi perché questi potranno costituire elementi di valutazione nell’ambito delle prove concorsuali. Questa norma ha anche l’obiettivo di evitare che gli studenti tendano a scegliere l’università più in base alla generosità delle valutazioni in termini di voti – particolarmente frequenti in una serie di “laureifici” a pagamento, ovvero università telematiche i cui requisiti di accreditamento non sono, a mio avviso, sufficientemente rigorosi – che all’effettiva qualità della formazione impartita.
Inoltre, con un Ordine del giorno – non è necessaria una misura di rango legislativo – presentato insieme a Manuela Ghizzoni, si impegna il governo ad evitare che di regola per la partecipazione ai concorsi sia richiesta una specifica laurea. Nel caso in cui siano richieste competenze corrispondenti a uno specifico e congruo numero di crediti formativi universitari, questi potranno essere acquisiti anche in soprannumero rispetto ai percorsi ordinari previsti per il diploma di laurea. Il risultato è più flessibilità e più spazio al merito. Del resto, giusto per fare un esempio tra i tanti, ha senso che un laureato in filosofia o in chimica non possa partecipare al concorso per la carriera diplomatica, al contrario di un laureato in marketing o in “Servizio sociale e politiche sociali”? Anche in questo caso, lasciamo il giudizio alle prove concorsuali.
Organizzazione dei concorsi pubblici
Nasce un organismo indipendente responsabile “dell’organizzazione delle attività concorsuali”, che potrà organizzare i concorsi su base territoriale. L’organismo verrà costituito nell’ambito di strutture amministrative esistenti e “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. Anche in questo caso vedremo come il criterio direttivo verrà tradotto dal governo nel decreto legislativo, ma senz’altro attraverso questa struttura tecnica sarà possibile organizzare i concorsi secondo regole e discipline al passo con le migliori prassi delle organizzazioni internazionali, e soprattutto sarà possibile mantenere un’adeguata distanza tra l’amministrazione che attiva la chiamata del personale e il soggetto che nomina le commissioni concorsuali. Un modo per evitare condizionamenti e “raccomandazioni” purtroppo assai diffuse: una delle critiche che mi sono state rivolte in questi giorni, anche con riferimento al voto di laurea, è che la selezione attraverso i concorsi è naturalmente condizionata da pressioni e raccomandazioni. Questi comportamenti costituiscono un reato penale, è bene precisarlo sempre, ma così creiamo le condizioni perché non possano comunque verificarsi.
La prova concorsuale e il “fascicolo del candidato”
Un altro emendamento prevede che le prove concorsuali “privilegino l’accertamento della capacità dei candidati di utilizzare e applicare a problemi specifici e casi concreti nozioni teoriche”, e che sia possibile “concentrare le prove concorsuali relative a diversi concorsi”. L’idea di fondo è quella di prevedere l’accertamento delle competenze teoriche di base, nelle discipline tradizionali oggetto dei concorsi pubblici, in prove che possono certificare la competenza del candidato e che sono utilizzabili, entro un periodo di tempo da determinare, per diversi concorsi. Così, in pratica, dopo la fase preselettiva, il candidato avrà un suo “fascicolo personale” nel quale potranno rientrare le competenze così certificate, le esperienze professionali (anche nelle “organizzazioni internazionali”, dispone un altro emendamento), altri titoli. La prova concorsuale vera e propria dovrà accertare, appunto, la capacità dei candidati di applicare le conoscenze teoriche alle situazioni concrete relative allo specifico profilo professionale. In questo caso l’obiettivo è duplice: da un lato, legare con maggiore concretezza il concorso alla prassi lavorativa, dall’altro evitare la continua – e obbligata – riproduzione di figure come il concorsista di professione, costretto a sperimentare spesso numerosissimi concorsi nel tentativo di affrontare prove teoriche su punti specifici sui quali è maggiormente preparato.
Dipendenti qualificati per una PA europea
Altri due emendamenti definiscono un indirizzo finalizzato a “valorizzare” gli studi di chi ha completato percorsi post-universitari, con il conseguimento del dottorato di ricerca (una norma attesa da anni) e prevedono che la conoscenza della lingua inglese e di altre lingue possa costituire un “requisito di partecipazione al concorso o titolo di merito valutabile dalle commissioni giudicatrici”. Investire sulle competenze linguistiche è necessario per realizzare una vera “europeizzazione dell’Italia”, attraverso i codici operativi, le decisioni e le interazioni a livello europeo della nostra Pubblica amministrazione. Dunque, così come il concorso pubblico innovativo dovrà essere la via di selezione normale e unica del personale pubblico, il bilinguismo italiano-inglese non deve essere un requisito aggiuntivo, ma un elemento necessario per l’ingresso nell’organico delle PA.
La riforma dei concorsi pubblici potrà dunque orientare al meglio le scelte degli studenti e soprattutto – con l’azione del governo nella normativa delegata – ristabilire la fiducia nel concorso pubblico, che deve costituire il canale ordinario di accesso agli impieghi pubblici e funzionare in maniera equa e trasparente. Così i giovani potranno trovare nella pubblica amministrazione un luogo di lavoro adeguato alla loro vocazione, alla loro voglia di servire lo Stato.